Al TIFF premiere di “Prisoners” di Denis Villeneuve, alla presenza del protagonistac e Hugh Jackman e degli gli altri componenti del cast: Jake Gyllenhaal, Paul Dano, Terrence Howard, Melissa Leo e Maria Bello. Film duro, a tratti scabroso, ambientato in una periferia di Boston, che e racconta la vicenda (o l’incubo) del falegname e padre di famiglia Keller Dover (Jackman) alle prese con l’improvvisa sparizione di due bambine: una è figlia sua, l’altra del suo migliore amico. La polizia non sembra essere in grado di ritrovarle – anche perché non ci sono prove sufficiente – e così Dover decide di agire autonomamente, prendendo in ostaggio l’uomo che ritiene colpevole del sequestro (un trentenne ritardato interpretato da Dano) e sottoponendolo a una serie di torture per farlo parlare. Ci ha ricordato, ma con più furore splatter, Un borghese piccolo piccolo, ricavato dal romanzo omonimo di Vincenzo Cerami, diretto da Monicelli, risale invece al 1977 ed è la storia di un modesto impiegato del ministero del lavoro, interpretato in modo magistrale da un insolito Alberto Sordi, che per la circostanza viene consegnato al ruolo di un personaggio drammatico, ma non per questo meno suo; in una vicenda che rapprenta non un giudizio di condanna ideologica, ma piuttosto una critica di costume rivolta ad un intero paese dove la dimensione del sociale sembra assente, con un sistema che lascia agli esclusi ben poche alternative, comprese quelle che si possono sempre giustificare ricorrendo a qualche teoria del Lombroso.
Autore venuto alla ribalta pochi anni fa con l’intenso “La donna che canta”, dramma livido, spaccato impietoso di un’America terrorizzata e sempre pronta all’uso della violenza, Denis Villeneuve con “Prisoniers”regala al pubblico un esempio di cinema di enorme impatto emotivo e insieme cinematografico.
Il film era giustamente atteso al TIFF, come lo sono a “12 Years a Slave”, durissimo affresco dei tempi dello schiavismo americano diretto dal talentuoso Steve McQueen, che si avvale di un cast impressionante, sia per numero che per bravura (Michael Fassbender Brad Pitt, Benedict Cumberbatch Paul Dano e Chiwetel Ejiofor); “Don Jon,” esordio alla regia di Joseph Gordon-Levitt, briosa commedia sulla dipendenza da pornografia; il tanto chiacchierato “The Fifth Estate” sulla vicenda di Julian Assange e WikiLeaks e il vibrante “Rush” di Ron Howard, ricostruzione firmata dallo sceneggiatore Peter Morgan del duello sportivo ed umano tra due campioni di Formula 1, James Hunt e Niki Lauda.
Fra le altre anteprime attese “The Dallas Buyers Club”, film sull'aids con un Matthew McConaughey; la commedia nera “Dom Hemingway” con Jude Law e Meryl Streep e Julia Roberts, madre e figlia, in “Osage County”, diretto da John Wells, basato sull'omonima piece teatrale di Tracy Letts, vincitrice del Premio Pulitzer, prodotto da George Clooney, Jean Doumanian, Harvey Weinstein, Steve Traxler, Grant Heslov e distribuitodalla The Weinstein Company, storia di una famiglia, un clan corrotto, che dopo la morte del patriarca si ritrova a convivere nelle casa dove sono cresciuti nel Midwest. Il film, adattato dall’autore stesso dell’opera originale “, con Tony Award e Tracy Letts, uscirà negli USA a novermbre e non sappiamo ancora quando e da chi sarà distribuito in Italia.
Per scaramanzia non parlo dei sette film italiani: “Anni felici” di Daniele Lucchetti; “L’intrepido” (visto a Venezia) di Gianni Amelio; “La grande bellezza” di Sorrentino, l’opera prima di Fabio Mollo, 'Il sud è niente' e l’altro esordio 'Border', di Alessio Cremonini, prodotto dalla Good Films;” Stop the Pounding Heart” di Roberto Minervini, italiano trapiantato negli USA, già presentato fuori concorso a Cannes e, “Che strano chiamarsi Federico” di Ettore Scola, che verrà presentato nella prestigiosa sezione Masters.
Ho visto e punto molto su Sorrentino, ma anche su Minervini, nel cui film Sara Carlson, come la biblica moglie di Abramo, con cui condivide il nome, non riesce a credere nella promessa divina e sulla cui ribellione il regista costruisce il terzo tassello di una sorta di “ribellione texana” in quell’America che educa i propri figli a casa con la Bibbia come unico libro di testo e li disciplina all’etica del lavoro, le donne alla sottomissione e ad una vita all’ombra dei mariti e i bambini a montare i tori per poter gareggiare ai rodei.
Certo come si è scritto Minervini non ha la potenza narrativa di un Gianfranco Rosi (Leone d’oro a Venezia) di “Below Sea Level” e neanche la ricchezza di Red State, documentario di Kevin Smith che attende ancora di essere distribuito in Italia, ma ha il merito di costruire momenti stranianti che non spingono subito lo spettatore “progressista” ad un aperto dissenso nei confronti di questo stile di vit; ma con un dissenzo feroce che emerge negli istanti di placidi, suadenti, convinti incontri di preghiera, durante i quali dall’educatrice si sente venir fuori un minaccioso, anche violento indottrinamento.
C’è infine Lucchetti, che non è andato a Venezia e si è risparmiato per il capoluogo dell’Ontario, con prima mendiale al TIFF oggi, alle 16,45, tentativo ininterrotto e sempre fallimentare di conciliazione fra esigenze diverse, raccontato con tono Il leggero, che oscilla tra il comico quotidiano e momenti di piccola commozione, dovuti certo allo script ma soprattutto alla con cui recitano Kim Rossi Stuart e Micaela Ramazzotti., che danno vita (se fose un film americano) ad un dramedy, un tipo di commedia lontanissimo cioè dalla tradizione italiana, ma che, essendo italiano, ci ricorda da vicino la farsa amara dei comici dell’arte. A Cannes “La grande bellezza”, unico film italiano in concorso, è piaciuto e speriamo che accada anche a Toronto, dove occorre che si comprenda la maniera del nostro regista, il suo cinema globale, la sua poetica e il suo modo di filmare, con richiami contionui ai grandi maestri contemporanei, da Haneke, a Wong Kar-wai, con in più richiami cinematografici e letterariche vanno da Fellini a Scola, da Moravia a Flaiano, che prevedono, per piacere, un pubblice colto e di italianofili, cosa che, di solito, solo a Cannes avviene.
Ma, forse, il pubblico anglofono, apprezzerà la bellezza della interpretazione di Servillo, la fotografia e la cura nel montaggio fra immagini e musica e ancora quella forte misogenia che vi traspare, a parte il fantasma della giovinezza, quella grande bellezza intravista in un primo amore consumato in fretta e non sbocciato, la donna assente, angelicata, immaginaria, che è presente anche in tanto cinema di oltre oceoano.
C’è poi “Border”, opera prima di Cremonini (che ho già adocchiato per il Roseto Film Festival Opera Prima), che vale più di mille articoli sulla tragedia della Siria e di quella parte del mondo, storia tragica e toccante della fuga di due sorelle dalla Siria alla Turchia, che è ancora in attesa di distribuzione e spera di trovarla in un Festival aperto come quello di Toronto.