Michele Sacerdoti
Milano
Da alcuni anni si discute a livello europeo del consumo di suolo agricolo conseguente alla espansione delle aree edificate.
Si cerca di preferire a questa espansione il riutilizzo delle aree industriali dismesse (brown fields) e la densificazione delle aree con edificazione diffusa.
Il settore edilizio, in grave crisi in seguito alla mancanza di risorse da parte di famiglie e imprese, alla difficoltà della erogazione dei mutui e alla grande offerta di abitazioni sul mercato conseguente alla elevata attività edilizia degli ultimi anni, cerca nuove opportunità di lavoro.
Dopo aver spinto sul recupero dei sottotetti, la parola d’ordine è ora la “rottamazione delle città”, cioè la demolizione e ricostruzione degli edifici con standard energetici migliori di quelli attuali.
Questo tipo di intervento, denominato sostituzione edilizia nel Piano Casa, si scontra con oggettive difficoltà: gli edifici residenziali sono di solito di più proprietari organizzati in condominii, quando la proprietà è unica è necessario ospitare gli affittuari in alloggi provvisori durante i lavori.
Rimane solo la possibilità di demolire edifici destinati ad uffici o edifici artigianali o industriali.
Questi ultimi sono spesso collocati nei cortili di edifici residenziali e possono essere trasformati in residenze solo limitandone il sedime e alzandoli di molti piani, con effetti negativi per tutti coloro che vi abitano attorno che perdono la visuale ed il risultato di densificare eccessivamente interi quartieri.
I legislatori, spinti dal settore edilizio, hanno cercato negli ultimi anni di modificare la legislazione urbanistica in modo da consentire questi tipi di interventi oltre a favorirli con agevolazioni fiscali, come il recente bonus del 50% sulle ristrutturazioni edilizie, e incrementi volumetrici, come nel Piano Casa.
Fino al 2001 gli interventi di ristrutturazione edilizia erano definiti dalla legge 457 del 1978 (norme per l’edilizia residenziale) come quelli rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, la eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti.
La legge non contemplava l’ipotesi della demolizione del fabbricato e della sua successiva ricostruzione, per cui si discuteva, nel silenzio della legge, se questa fattispecie potesse rientrare nella
ristrutturazione edilizia.
Lo escludeva la Cassazione penale, lo ammettevano i giudici amministrativi, a patto che il nuovo edificio fosse una ricostruzione fedele dell’edificio precedente.
E per organismo fedele si riteneva un manufatto che ubbidisse alle seguenti prescrizioni:
stessa area di sedime, stessa volumetria, stessa sagoma, stessi materiali di costruzione.
Il testo unico dell’edilizia (d.P.R. n. 380/2001) ha recepito la posizione dei giudici amministrativi comprendendo nella ristrutturazione edilizia anche la demolizione e ricostruzione (ristrutturazione pesante), richiedendo la fedele ricostruzione dell’edificio preesistente quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali. Successivamente l’art. 1, d.lgs. 27 dicembre 2002 n. 301, pur togliendo l'originario riferimento alla “fedele ricostruzione”, ha comunque ribadito che: “Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica.”
La Regione Lombardia, con la legge urbanistica 5/2012 ha eliminato il riferimento alla sagoma con un emendamento in consiglio regionale ma le sentenze del TAR hanno ritenuto che prevalesse la legge nazionale. In seguito a queste sentenze la Regione Lombardia ha dato una interpretazione autentica della legge urbanistica con la legge 7/2010 dichiarando che, nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia, la ricostruzione dell’edificio che segue a demolizione è da intendersi senza vincolo di sagoma.
E’ intervenuta successivamente la Corte Costituzionale, su richiesta del TAR Lombardia, che ha ritenuto la legge regionale incostituzionale in quanto le regioni non possono definire in modo difforme la linea di distinzione tra le nuove costruzioni e gli altri interventi edilizi, con conseguenze sul “paesaggio della nazione” tutelato dall’art. 9 della Costituzione.
La sentenza della Corte Costituzionale ha portato i Comuni a diffidare una serie di DIA di ristrutturazione edilizia dalla loro esecuzione, in quanto andavano considerate come nuove costruzioni ed assoggettate alle prescrizioni dei piani di governo del territorio relative a questo tipo di intervento, ad esempio le norme sulle distanze dagli altri edifici e gli indici urbanistici.
L’ANCE è intervenuta promettendo che avrebbe fatto modificare il Testo Unico dell’Edilizia alla prima occasione utile, e questa si è presentata con il Decreto del Fare, preparato dal Ministro Lupi che si è battuto dagli anni novanta a livello milanese e lombardo per la deregulation urbanistica ed edilizia ed ha presentato successivamente in parlamento dei progetti di nuova legge urbanistica nazionale nello stesso senso , a sostegno degli interessi del settore immobiliare.
Il tentativo di Lupi con il regolamento edilizio del 1999 di Milano era stato di qualificare alcuni interventi di ristrutturazione edilizia come risanamento conservativo e alcuni interventi di nuova costruzione come ristrutturazione edilizia, evitando di dover cambiare il piano regolatore per autorizzare alcune operazioni.
L’INU ha chiarito con la sua dichiarazione del 17 luglio scorso come la possibilità di cambiare la sagoma nelle ristrutturazioni edilizia avrebbe portato a stravolgimenti nelle città in quanto i Piani Regolatori consentono nei centri storici ed in edifici di particolare interesse architettonico gli interventi edilizi fino alla ristrutturazione edilizia, nella ipotesi che in questo modo sia salvaguardata la forma della città in quanto gli edifici non possono essere trasformati in altri di forma diversa, ad esempio con altezza maggiore.
“L’Inu ricorda che da sempre la pianificazione urbanistica ricorre alla ristrutturazione edilizia come massimo intervento consentito quando ha bisogno di scongiurare la demolizione di immobili di interesse storico, architettonico o testimoniale, consentendo la demolizione e ricostruzione a parità di volume solo per edifici o tessuti insediativi privi di valori storici e ambientali. “
In tal modo si conservano gli allineamenti delle gronde e delle facciate lungo le strade e non si consente che edifici artigianali o industriali in mezzo agli isolati residenziali possano alzarsi soffocando gli spazi interni tra le case e violando la distanza minima di 10 metri prevista dal D.M. 1444/68 per le nuove costruzioni.
I piani regolatori considerano il cambiamento di sagoma come una nuova costruzione e lo assoggettano a indici urbanistici, norme morfologiche, controlli estetici da parte della commissione edilizia, come è giusto che sia per un edificio che non ha nulla a che fare con quello preesistente.
Il Decreto del Fare, consentendo il cambiamento di sagoma nelle ristrutturazioni, limita le nuove costruzioni agli edifici costruiti su terreni precedentemente non edificati come quelli agricoli, proprio quelli che non si vorrebbero più costruire per non consumare suolo.
Pertanto la maggior parte dell’attività edilizia sarà costituita da ristrutturazioni edilizie “pesanti”.
E’ ovvio l’interesse di semplificare al massimo i tempi dei permessi per questa attività, consentendo di utilizzare la Scia, ultima arrivata nella deregulation edilizia dopo la DIA.
Con la Scia i lavori possono essere iniziati subito, senza il parere estetico della Commissione Edilizia o della Commissione per il Paesaggio o il parere dei consigli di circoscrizione nella città più grandi.
In sede di conversione del Decreto del Fare il Parlamento ha cambiato solo questo aspetto, prevedendo che i Comuni entro il 30 giugno 2014 definiscano la parti dei centri storici (zone “A”) in cui la ristrutturazione edilizia con cambiamento di sagoma richiede ancora il permesso di costruire, come previsto precedentemente dal testo unico dell’edilizia.
Ma questa è una modifica che non salvaguarda i centri storici perché comunque il Comune dovrà rilasciare il permesso di costruire se il suo piano regolatore consente che su un determinato edificio si possa realizzare una ristrutturazione edilizia “pesante” con demolizione e ricostruzione.
Per evitarlo dovrà cambiare il suo piano regolatore, con tempi lunghi e risultati incerti, viste le pressioni dei proprietari degli immobili a favore della possibilità di poter cambiare la sagoma degli edifici. E’ chiaro che il valore di un edificio da recuperare è maggiore se si può cambiarne la sagoma. Si pensi ad un capannone industriale che si voglia trasformare in edificio residenziale riducendone il sedime e aumentandone l’altezza. Se prima si rischiava di perdere parte della volumetria in quanto maggiore di quella permessa degli indici del piano regolatore in quell’area, ora essa potrà essere totalmente conservata e valorizzata.
Ugualmente può succedere per un edificio terziario basso e largo non avendo bisogno del doppio affaccio che può essere ristretto ed alzato, magari trasformato in grattacielo residenziale con vista sulla città. I piani alti si vendono meglio che i piani bassi. Mentre prima era spesso necessario un piano attuativo concordando con il comune la distribuzione planivolumetrica, ora non sarà più necessario. Si potrà utilizzare la Scia e il gioco è fatto.
Si perde il controllo pubblico del territorio e si danneggiano i diritti di visuale dei vicini.
Ecco perché il ministro Lupi è intervenuto personalmente nell’aula del Senato dopo che in commissione Bilancio era passato un emendamento del Pd che manteneva il vincolo di sagoma. Il dibattito è stato portato sull’utilizzo della Scia o del permesso di costruire nelle zone A (art. 23 bis), che era stato il risultato alla Camera di un compromesso tra il ministro Lupi e l’on. Morassut del Pd, che aveva presentato un emendamento per conservare la sagoma. L’art. 23 bis obbliga i comuni a definire entro il 31 dicembre 2013 le aree in cui il cambiamento di sagoma necessita di permesso di costruire.
Sorprendente appare il veloce allineamento della Regione Emilia Romagna al Decreto del Fare (L.R. 15/2013 del 30 luglio 2013), senza aspettare la sua conversione in legge, eliminando il mantenimento della sagoma dai requisiti della ristrutturazione edilizia. Questo allineamento è stato utilizzato dal ministro Lupi in modo strumentale per convincere il Senato a non modificare se non marginalmente la legge nell’art. 23 bis.
Tolto il vincolo di sagoma nelle ristrutturazione edilizie e grazie agli incentivi fiscali e premi volumetrici su questo tipo di interventi si può prevedere che le nostre città e paesi cambino fisionomia, scavalcando le norme della pianificazione urbanistica e con scelte estetiche e di sagoma degli edifici lasciate alla libera scelta degli operatori immobiliari. Dopo le scelte urbanistiche lasciate spesso agli operatori anche quelle edilizie diventano largamente libere. Aspettiamoci il peggio !