USA all’attacco

Non è la prima volta che popoli orgogliosi del proprio ordinamento politico pensano che sia loro dovere esportarlo altrove.
L’Atene splendente dell’epoca di Pericle, la Francia della stagione giacobina e la Russia bolscevica hanno pensato che fosse loro diritto e dovere liberare i popoli e donare loro le stesse gioie che avevano conquistato a casa propria.
Ma non sono mancati coloro che hanno, più moderatamente, sostenuto che il buon esempio sarebbe stato il modo migliore per esportare i frutti prelibati coltivati a casa.
Un inaspettato avvocato di tale causa fu, nel periodo più critico della Rivoluzione francese, il divino Marchese de Sade che, in una pagina di eccezionale lucidità della Filosofia nel boudoir, ammoniva i francesi: “Invincibili sulle vostre terre e di modello a tutti i popoli con il vostro regolamento e le vostre buone leggi, non ci sarà più governo al mondo che non si dia da fare per imitarvi, non uno che non sia onorato di essere vostro alleato. Ma se, per la vanagloria di portare lontano i vostri princìpi, abbandonerete la cura della vostra felicità, risorgerà il dispotismo che è soltanto addormentato, sarete divisi da lotte intestine, sperpererete finanze ed eserciti, e alla fine tornerete a baciare le catene sotto i tiranni che avranno approfittato della vostra assenza per soggiogarvi. Tutto quel che desiderate lo potete realizzare anche restando nei vostri confini; gli altri popoli vi vedranno felici e correranno anch’essi sulla stessa strada da voi tracciata”.
La Siria rischia di divenire il quarto Vietnam, dopo Iraq e Afganistan, per gli Stati Uniti. Ieri il presidente Barack Obama ha fatto circolare la voce che sta valutando un attacco limitato, della durata di non più di due giorni, con missili lanciati dalle navi da guerra nel Mediterraneo, per punire l'uso di gas che dovrebbe anche svolgere una funzione deterrente, mantenendo allo stesso tempo gli Stati Uniti estranei dalla guerra civile in atto.
Naturalmente è contraria la Russia, con Mosca che invita gli americani e tutta la comunità mondiale a “esercitare il buon senso e rispettare rigorosamente il diritto internazionale”, secondo quanto dichiarato da Alexander Lukashevich, portavoce degli Esteri russo, in un comunicato pubblicato sul sito web del Ministero. Il compito più urgente, per Lukashevich, è convocare la conferenza sulla Siria, mentre il Dipartimento di Stato americano comunica di aver rinviato il previsto incontro fra diplomatici americani e russi in programma domani a L'Aia in seguito “alle consultazioni in corso per trovare una risposta appropriata” all'attacco del 21 agosto in Siria.
Secondo il Washington Post la tempistica dell’attacco dipenderebbe da tre fattori: il completamento del rapporto dell'intelligence che determini la colpevolezza del regime di Assad; le consultazioni con gli alleati e il Congresso; una giustificazione a intervenire in base alla legge internazionale, con gli avvocati dell'amministrazione starebbero infatti esaminando una possibile giustificazione legale in base alla violazione delle norme internazionali che vietano l'uso di armi chimiche o una richiesta di assistenza da parte di uno stato vicino, come la Turchia.
Certo è che tale attacco avrebbe conseguenze gravi sull’equilibrio mondiale, anzi, sempre secondo il portavoce russo Lukashevich “disastrose”, mentre anche l’Iran, per messo del portavoce del ministero degli esteri, fa sapere che “occorrono suluzioni politiche” e non militari, sottolineando che questo è il momento di essere cauti per evitare che la situazione vada fuori controllo.
Secondo l’amministrazione russa : “i tentativi di aggirare il Consiglio di sicurezza Onu creano per l'ennesima volta pretesti artificiali infondati per un intervento militare nella regione, gravidi di nuove sofferenze in Siria e conseguenze catastrofiche per Medio Oriente e Nord Africa Nord” e riguardo alle “prove inconfutabili” sull'uso di armi chimiche da parte del regime di Damasco, di cui gli Stati Uniti sarebbero in possesso e di cui, in conferanza stampa, aveva parlato ieri il vicepresidente John Kerry, queste “non sono state ancora presentate”, mentre ieri , in una telefonata con il premier britannico David Cameron, il presidente russo Vladimir Putin aveva affermato che a suo avviso “non ci sono ancora prove che l'attacco del 21 agosto sia stato opera delle forze di Assad”.
Come scriveva sette anni fa su “Lettera Internazionle” Daniele Archibugi, le due principali guerre con cui si è aperto il terzo millennio, quelle in Afghanistan e quella in Iraq, sono state giustificate dagli Stati Uniti e dai loro alleati con argomentazioni miste e per lo più basate sull’idea della autodifesa per sradicare le basi terroristiche e distruggere le presunte armi di distruzione di massa e per imporre un cambiamento di regime ed esportare la democrazia, come se questa fosse esportabile come banane.
Ma la convinzione statunitense è questa, dallo stermiono dei nativi per “civilizzare” i territori selvaggi, alla polita del “bastone e della carota”, una convinzioneche ha generato una condizione perversa degna del bispensiero di George Orwell: si usa la guerra per promuovere la pace, si somministra violenza per ottenere democrazia.
Oltre che un paese con storiche tradizioni democratiche e isolazioniste, sono anche pervasi da una cultura con un solido sedimento calvinista: sempre in bilico tra il moralismo e l’ipocrisia. E appunto sempre in bilico tra il moralismo e l’ipocrisia c’è quella mania americana satireggiata nella canzone di Bob Dylan del voler fare sempre le guerre “con Dio dalla nostra parte”.
Sicché è sempre strisciante in quella cultura, la tentazione di “rendere il mondo sicuro per la democrazia” in nome della quale Woodrow Wilson convinse gli americani a entrare nella prima guerra mondiale contro il “militarismo prussiano”.
Una mentalità piena di contraddizioni , come si diceva, dal momento che, come è noto, vuole prodursi per la democrazia e contro i regimi che detengono armi di distruzione di massa, tacendo che sono proprio gli USA i i principali detentori di armi di distruzione di massa, assieme a Russia, Cina, Regno Unito, Francia, India e Israele, con loro che sono gli unici al mondo che l’atomica, oltre che sperimentarla, l’abbiano anche usata, a Hiroshima e Nagasaki e sono coloro che, dal 1945 a oggi, hanno compiuto il maggior numero di interventi militari all’estero: ben 105, anche se molti con mandato Onu.

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