Non sempre il racconto della propria vita, anche se ricca e suggestiva, riesce e l’esercizio autobiografico è difficile, tanto nella scritura che nel cinema.
Nel film la famiglia si chiama Rossi Levi ma bastano pochi minuti per capire che si tratta di quella dell’autrice: Valeria Bruni Tedeschi, sempre in bilico fra Italia e Francia, con una storia tutta dedicata al fratello Virgilio, morto di Aids nel 2006.
La vera sorpresa è che il film, terza regia della bella attrice, è tra i titoli più venduti ai distributori internazionali, anche se si tratta di una storia trita e melensa, risaputa nella narrazione e banale negli sviluppi.
Sorella di Carlà, più “bruttina” e decisamente più “agée”, nel 2005 si è presa una rivincita fidanzandosi con Louis Garrel, terribilmente giovane (21 anni allora) e bello, attore in ascesa, misterioso manipolatore in “The Dreamers” di Bertolucci.
Oggi sappiamo tutto di loro (intendo dire i Bruni Tedeschi), sappiamo che a scuola Valeria studiava mentre Carla cazzeggiava e ancora che entrambe leggevano di tutto e di più (dai classici ai contemporanei) e ascoltavano musica. Poi il teatro (Valeria) e la moda (Carla)., con un solo fidanzato per Valeria: regista Mimmo C a l o p r e s t i e una a serie di storie per la più giovane: Mick Jagger, Eric Clapton, Donald Trump, Vincent Perez, Raphael Enthoven, fino a divenire con Sarkozy la “premiere dame”.
Nel film di Valeria (presentato non si sa come a Cannes), la storia di una famiglia alto borghese di Torino (come la sua, padre manager “illuminato”, compositore dodecafonico e madre pianista), costretta a “fuggire” a Parigi per paura dei rapimenti (come accadde ai Bruni nel ’70) e la morte atroce di un fratello sensibile e colto, sprovveduto e indifeso rispetto alla durezza della vita.
Ha urlato “stronza” alla critica del Times che le rimpriovera un film snob in un mondo snob e se ne è andata a metà intervista Valeria, lei l’unica donna in concorso, alla terza regia e che si vanta di aver scritto tutti i suoi film solo con donne, le due sceneggiatrici Agnès De Sacy e Noémie Lvovsky e che in “Un château en Italie” racconta la voglia di un figlio che fa smettere di lavorare, la decadenza economica che costringe la sua famiglia a vendere il castello, il rapporto con il fratello che muore di Aids (Filippo Timi) e una madre che, quando la figlia dice, in modo vagamente esaltato: “Mi sento benissimo”, la fulmina così: “Senza un uomo e senza figli e senza un lavoro che ti obblighi ad alzarti la mattina”.
La madre è davvero la madre, Marisa Borini, la pianista, la diva, la signora torinese, l’avventuriera che concepì Carla Bruni, alla fine degli anni Sessanta, con un uomo che non era il marito e a lei lo confessò solo in età adulta, la donna che ha sfilato orgogliosa a Cannes senza reggiseno e che non avrebbe mai permesso a nessun’altra di impersonare se stessa.
Si è detto e scritto che tutti si aspettavano Carlà a Cannes e per questo il film era in concorso.
Ma Carlà non è arrivata sicché, per un poco le stelle sono state Valeria e sua madre, questa in tailleur di velluto rosso, una sigaretta in mano, una Kelly sbattuta per terra e la faccia che avrà Carla tra una ventina d’anni e Valeria (che nel film però si Louise), che va nei dintorni di Napoli per sedersi su una sedia miracolosa che fa restare incinte, ma la suora di guardia non la fa entrare, perché lei le racconta nevroticamente che non crede in Dio proprio tutti i giorni, che ha fatto la fecondazione artificiale con uno con cui non è sposata, che una volta è stata in una sinagoga ( “Peccato mortale!”); sicche Louise si toglie i sandali e scappa di corsa a sedersi sulla miracolosa sedia, da cui la strapperanno a forza.
Dopo tutte le confessioni e i segreti (la madre, dopo la morte del figlio dà del lei alla Madonna e dice: “Non la pregherò più”), un capolavoro di snobbismo elitario senza costrutto ma, forse per questo, acquistato in tutto il mondo.
Ho certato con tutte le forze di trovare qualcosa di buono nel film della Bruni Tedeschi ed ho pensato che in fondo anche Lubitsch e Minelli hanno parlato di ricchi e quanto a pubbliche confessioni Woody Allen ce ne ha fatte a iosa.
Ma il fatto è che la Valeria cerca di giustificarli i ricchi, anche se sono viziati e anche tirchi e si sciacquano i sensi di colpa con un po’ di beneficenza d’accatto, in un film che è un racconto di Guy de Maupassant con la gricia al posto del foie gras e la grosolanità al posto delle sfumature.
Insomma l’esatto opposto di Sorrentino che con “La grande bellezza” racconta e non cerca assoluzioni, con momenti di straziante lirismo come quando Jep Gambardella (Toni Servillo), il giornalista più famoso di Roma (anche se intervista solo cialtroni: ma la scrittura al cinema italiano non è richiesta da un pezzo), va a trovare il neovedovo del suo amore di gioventù, in una casa triste, con la credenza di finta arte povera e i capodimonte tarocchi, brutti quadri da bancarella alle pareti e centrini sul tavolo, ma molto più umana del savoir faire di Jep, così a posto nel suo spezzato di lino chiaro, ma così confuso nella morale che è peggiore dei piccolo-borghesi così modesti, così privi di gusto, così meschini, ma anche così autentici e veri.
Ma c’è anche nel film della Bruni un momento rivelatore: Valeria che non ascolta il racconto del suo maggiordomo personale (se l’è portato nel suo appartamento di 70 metri quadri perché da sola non saprebbe cucinare neanche un uovo sodo) e poi corre a dar da mangiare ai barboni.