Di Carlo Di Stanislao
Ventisette stati con un melting pot culturale non indifferente: lingua, letteratura, teatro, arti visive, architettura, artigianato, cinema, televisione molto diversi, per un’idea, quella di Europa, che, come ha scritto Saramago, cambia col cambiare delle generazioni.
Per far più solida questa idea, con lo slogan Uniti nella diversità ideato nel 1985 da Milena Mercuri, lo stesso anno il Consiglio dei Ministri dell'Unione, con l'appoggio di Parlamento e Commissione, adottò l’iniziativa denominata “Capitale Europea della Cultura”: uno dei programmi culturali europei di maggior successo, con un crescente interesse da parte di politici, accademici e media e con città designate su basi intergovernative fino al 2004 e, dal 2005, in base ad un nuovo sistema di selezione, monitoraggio e valutazione, con la possibilità delle candidate di associare al loro programma un territorio regionale, così come hanno fatto Lussemburgo ed Essen rispettivamente nel 2007 e 2010 e con investiture che non derivano unicamente da ciò che si è fatto, ma soprattutto dal programma di eventi sociali e culturali ci si propone di organizzare; espressione delle particolarità del luogo e dimostrazione di creatività capace di dar vita ad un insieme con carattere di eccezionalità.
Ciò che va ribadito, comunque, è che mentre inizialmente la nomina era solo un modo per costruire un'immagine positiva della città da comunicare all'esterno, oggi è uno strumento per rafforzare l'identità culturale interna delle città e dei significati che può assumere per i suoi cittadini.
Negli anni più recenti questo titolo è diventato la maggiore opportunità che le città hanno per cambiare la loro immagine e inserirsi nella mappa europea, superando difficoltà relative a governance, leadership, gestione, finanziamento e pubbliche relazioni.
Soprattutto il mondo accademico ha saputo cogliere questa opportunità, creando una rete universitaria delle capitali europee della cultura, che attualmente comprende oltre 40 istituzioni di 20 differenti Paesi.
Sull’argomento un saggio molto interessante è quello pubblicato per Franco Angeli, nel 2007, da Monica Sassatelli, intitolato “Identità, cultura, Europa. Le Città europee della cultura”, che acutamente parte dall’idea di guardare a l’Europa come un'istanza che media tra scala globale e contesti locali, espressione quindi della complessità del mondo odierno, nel quale vari strati e tipi di appartenenza costituiscono quella che viene spesso chiamata l'identità multipla del soggetto contemporaneo.
In effetti, il programma “Città europea della cultura” si pone dichiaratamente come un tentativo di risvegliare un'identità europea diffondendone i simboli, ma rispettando i contenuti delle culture nazionali e soprattutto locali, facendo in modo che una città non sia contenitore di eventi, ma evento-modello essa stessa.
Nel libro richiamato, la giovane ricercatrice analizzava il caso del 2000, quando nove città contemporaneamente (Avignone, Bergen, Bologna, Bruxelles, Cracovia, Helsinki, Praga, Reykjavik, Santiago de Compostela) condivisero il titolo, mettendo in primo piano la dimensione europea e l'esigenza di far dialogare senza omogeneizzarle le diversità, facendo di tale attitudine espressione di unità. Dallo sguardo ravvicinato su Bologna e sulle relazioni instaurate con le altre “Città europee della cultura”, si sviluppa la riflessione su come e in che senso lo spazio culturale europeo contemporaneo realizzi quella “unità nella diversità”, capace nei fatti di essere il contenuto centrale sia dei discorsi ufficiali, sia di quelli accademici, una vera e propria formula per comprendere e compenetrare la complessa identità europea.
Nel 2019, com’è noto, la scelta cadrà su una città italiana e le candidature riguardano: Venezia con il Nordest, Torino, Brindisi, Matera, Palermo, Perugia con Assisi, Terni, Siena, Ravenna e L’Aquila, città in condizioni spesso critiche e che dovranno convincere la commissione attraverso progetti di riqualificazione sociale ed urbana e non solo per il numero e la portata degli eventi.
In effetti, il titolo di Capitale europea della cultura 2012 è stato assegnato a Maribor che, con le città-partner di Murska Sobota, Novo Mesto, Ptuj, Slovenj Gradec e Velenje, ha vinto grazie alla presentazione di progetti atti allo sviluppo delle istanze culturali locali, commisto ad un ampliamento dei collegamenti regionali, nazionali ed appunto europei, che ne hanno largamente migliorato la già elevata qualità della vita.
Piccola e gradevole città slovena famosa per il vino, le terme e lo sport, Maribor, dopo la sua investitura, ha visto un incremento del turismo con un totale di oltre 1,3 milioni di visitatori, ma anche della visibilità, con 300 giornalisti stranieri giunti sul luogo, 400 articoli in rassegna stampa, 600.000 visitatori sul sito web e ben 3.000 utenti per l’app dedicata.
Ciò che ha permesso tutto questo è stato un programma che ha puntato al coinvolgimento del comprensorio, in una dimensione nazionale pubblico – privata, ma anche all’integrazione e allo sviluppo sociale ed economico, tale da fare del piccolo, gradevole centro, un modello di vita individuale e sociale.
Di questo e del ruolo che la cultura può avere nel prepara la candidatura della città per il 2019, si parlerà a L’Aquila, al Palazzo della Magnifica Camera (Palazzetto dei Nobili), con inizio alle 17, il prossimo venerdì 7 novembre, con una tavola rotonda coordinata da Errico Centofanti, che intende presentare il progetto preliminare per la presentazione della candidatura, che dovrà essere inviato a fine estate 2013, con una “difesa” della stessa rispetto alle altre candidature nel 2015 e, infine, una parte operativa (superate le prime due fasi), fra quella data e il 2018.
Nello spirito del già enorme lavoro culturale sviluppato da Errico Centofanti con le diverse istituzioni locali, si illustreranno i disegni immaginati ed in fieri, tutti basati sulla consapevolezza, per usare le parole stesse del coordinatore, della “inscindibilità fra cultura e sviluppo economico sostenibile”, binomio che dovrà necessariamente farci procedere attraverso un “organico complesso di azioni artistico-culturali concepite come motori di crescita economica, genitrici di posti di lavoro e fattori di miglioramento della qualità della vita e della convivenza”.
Con l’introduzione dell’Assessore alla Cultura del Comune de L’Aquila Stefania Pezzopane e le conclusioni affidate al sindaco Massimo Cialente, gli interventi preordinati, del giornalista Luca Bergamotto, della Sovraintendente ai Beni Culturali Alessandra Vittorini, del Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio Roberto Marotta, dei Vicepresidenti del Consiglio Regionale Giorgio De Matteis e Giovanni D’Amico, dell’Assessore per le Referenze Internazionali del Comune de L’Aquila Mauro Fattore, dei professori Perluigi Properzi, Ordinario di Urbanista della locale Università, Umberto Villante ordinario di Fisica Spaziale, Paola Inverardi preside della Facoltà di Scienze e del sottoscritto, come presidente dell’Istituto Cinematografico Lanterna Magica, porteranno in evidenza il ruolo della cultura nei processi di coesione e integrazione sociale, ponendo cruciali questioni di responsabilità, legittimità e cittadinanza, per dimostrare che per arrivare a parlare di contributo delle politiche culturali ai processi di integrazione, è indispensabile riconoscere che solo l'inclusione può esercitare un impatto sulle altre dimensioni – economica, sociale e politica , indispensabili per portare a buon fine un progetto tanto ambizioso.
Per quanto mi concerne sosterrò anche la necessità, fra le altre cose, di progetti sostenibili che favoriscano il legame tra cultura e settore sociale e soprattutto lo sfruttamento attivo delle potenzialità dei diversi patrimoni culturali nei processi di integrazione del territorio, con una serie di iniziative che, con il pieno sostegno delle amministrazioni e dei decisori pubblici, portino, attraverso la partecipazione di enti, istituzione ed investitori privati, alla creazione di luoghi di dibattito e scambio, con la possibilità di avviare in concreto anche un processo fecondo di interscambio tra l'azione pratica e la ricerca, all’interno di una comunità che è e si appresta sempre più ad essere multietnica e, pertanto, multiculturale. Ed in questo ambito il cinema, proprio per la sua natura meta-culturale e multi-artistica, in cui convergono specificità letterarie, pittoriche, musicali e di altro tipo, può e deve svolgere un ruolo di preminente importanza, nel dimostrare, con proiezioni, rassegne, dibattici ed anche realizzazioni originali con contributi diversi, che l’idea di pluralità, molteplice, varietà diversità , non debbono collegarsi alla impressione di disordine, d caoticità, anarchia, ma essere invece un fattore aggiunto di coesione e stratificazione sociale.
Le leggi gestaltiche di raggruppamento (vicinanza, similarità, chiusura, continuità, simmetria) ci insegnano che la nostra mente cerca simmetrie, somiglianze, continuità piuttosto che asimmetrie, discordanze e discontinuità. In altri termini, dal punto di vista percettivo siamo stati “attrezzati” (in senso evolutivo) per vedere strutture d’ordine più o meno unitarie anziché la caoticità.
E per destrutturare tutto questo l’arte (e soprattutto una meta-arte come il cinema) è di grandissima importanza.
Se la logica identitaria su cui si è fondata tutta la riflessione filosofica occidentale da Parmenide all’idealismo tedesco ha potuto garantire una metafisica della sostanza, dell’essere e una teologia cristiana (e islamica, come troppo spesso si dimentica) fondate sull’idea di permanenza e di immutabilità, l’avvento della modernità, con la sua idea di un individuo libero, autonomo, capace di autodeterminazione e di valutare (e criticare) razionalmente tradizioni, norme, autorità ha modificato radicalmente il quadro di quella logica.
Attualmente, da noi come altrove, un arcipelago di comunità autosegregantisi, prive di osmosi con quell’ambiente che un tempo si chiamava “società”, intesa come insieme di vincoli, di obblighi, riferiti a norme e valori derivanti dal senso di appartenenza a una comunità che produce rappresentazioni collettive condivise (l’idea di un bene comune che è possibile perseguire meglio cooperando anziché ostacolandosi reciprocamente); ha generato ciò che Zygmunt Bauman definisce una società che si sente sotto assedio.
Io credo, invece, che a L’Aquila, nell’ambito della progettualità per la Candidatura 2019 a Capitale Europea della Cultura, si possa e si debba operare, in ambito culturale e teorico prima e pratico subito poi, per un autentico pluralismo culturale, in quanto risultato di un’idea liberale di società in cui molti possono stare insieme, dove ciascuno realizza meglio i propri progetti limitando la propria libertà (o meglio il proprio arbitrio, la propria volontà soggettiva), nella consapevolezza che lavorare per il bene di tutti è il modo migliore per realizzare il proprio e di essere più liberi, in un luogo dallo spirito particolare ed intatto, che sa ricollegarsi al passato, ma procedere, al contempo, verso un futuro aperto e differente.
Il cinema (italiano e straniero, soprattutto quello delle società meno garantite), ci racconta meglio di ogni altra cosa, che la “morte della società” accade quando gli altri sono percepiti e/o raccontati solo come ostacolo, intralcio, fastidio.
Sicché, quando la pluralità è il nemico da battere, quando si esclama trionfalmente “ne resterà uno solo!”, enfatizzando non-virtù come furbizia, dissimulazione, stupidità calcolata, capacità di manipolare gli altri secondo i propri fini; si sprofonda verso la barbarie come negazione di civiltà e cultura.
Insomma, oltre che sostenibili, i progetti da presentare dovranno, in ogni campo ed in ogni ambito, fare in modo di avere come elemento costante la propria “differenza” (non importa se personale, culturale, sociale, religiosa o politica), riconosciuta, accettata, accolta, tutelata e garantita, in modo da permettere si che la propria “differenza”, cioè della propria specificità di condizioni umane e personali, divenga un grimaldello per aprire tutte le porte e per ottenere vantaggi legati alla propria particolarità.
E poiché, come ha scritto Giovanni Sartori, la politica dell’identità “discrimina per cancellare discriminazioni”, cioè per tutelare le differenze, le diversità, le forme di vita plurali che rivendicano il diritto al riconoscimento proprio in quanto “altre”, si attivano meccanismi compensativi di passate discriminazioni, da cui deriva un enorme problema etico che riconfigura la questione della pluralità e del pluralismo, l’impegno che dovremo produrre sarà davvero formidabile.
Si tratta infatti di capire che cosa significhi riconoscere, perché non esiste un criterio oggettivo per preferire una minoranza a un’altra, un’affiliazione da proteggere rispetto a un’altra affiliazione.
Come affermano nel loro dialogo l’antropologo Marco Aime ed Emanuele Severino (“Il Diverso come icona del male”, edizione Bollati Boringheri, 2009), siamo di fronte a un problema al tempo stesso filosofico, antropologico, sociopolitico ed etico, che, al cinema, è stato molto ben affrontato e sviluppato, con molti film in cui lo sforzo di tenere assieme dimensioni diverse, di pensare la diversità e la pluralità come un valore, di comprendere ogni dimensione plurale (in sé e per sé) con le sue radici ma in un terreno comune, come tanti fiori in un giardino, è raccontato come uno spazio che vive della ricchezza dello sguardo di chi lo coltiva, un’immagine vivente della pluralità e del pluralismo, temi di così grande attualità che non possono che costituire un valore aggiunto e qualificante al nostro intero programma per essere Capitale Europea della Cultura.
Non è causale, pertanto, la scelta del luogo in cui organizzare la tavola rotonda, il Palazzo della Congregazione dei Nobili, meglio noto come Palazzetto dei Nobili o anche Oratorio dei Nobili, combinazione multiculturale per eccellenza ed esempio, pressoché unico, di equilibrio tra architettura civile e religiosa, coerente alle origini miste (papali e reali) della città, danneggiato ma non distrutto dal sisma del 2009, con un restauro di cui si è fatta carico, per circa un milioni di euro, la Camera dei Deputati e che, fino a tutto il Seicento, fu il centro della vita politica e culturale di una città che molte volte, inaspettatamente, ha trovato il coraggio di rinascere.
E mi piace pensare a questo luogo come un grande schermo cinematografico, una quinta che si staglia isolata e solenne su tre lati di piazza Santa Margherita, decorato con “L’Assunta” di Girolamo Cenatiempo, allievo di Luca Giordano e capace, come il maestro, di assorbire le differenze senza tradire la propria individualità.