Si è chiuso l’altro ieri il Festival del Cinema di Torino, che ha registrato un incremento di spettatori del 17% e degli incassi del 16,25, dimostrando, anche in questa trentesima edizione, che nel cinema,contenuti e spettacolo possono convivere egregiamente.
Spiace che Amelio, in chiusura di un quadriennio completamente positivo, debba andarsene e facciamo il tifo per Emanuela Martini, la sua vice, che speriamo prende il suo posto alla direzione artistica.
Spiace anche per il rifiuto del premio (con motivazioni un poco populiste) di Ken Loach, il quale con questo gesto, ha scritto che intende stare dalla parte dei lavoratori, soprattutto quelli che, nel Festival ed in altri luoghi, sono i più malpagati e vulnerabili, e coloro i quali hanno perso il posto di lavoro per essersi opposti ai tagli salariali.
La vicenda richiamata da Loach nella sua lettera al Festival, riguarda l’appalto esterno dei servizi di pulizia e sicurezza del Museo Nazionale del Cinema (MNC) e, ha scritto il regista inglese, richiama proprio quanto raccontato nel film presentato a Torino: “'Bread and Roses”, titolo preso da uno slogan lanciato nel 1912 durante uno sciopero di operaie a Lawrence (Massachussetts), film realizzato negli States senza però scendere a compromessi con il suo modo politicamente impegnato di fare cinema.
Torino, in ogni caso, è stata la risposta al fiasco di Roma, con più pubblico e più incassi e un segnale chiaro e forte a Muller e company: un altro cinema è possibile.
E’ possibile, ad esempio, come ha scritto Alberto Sainati su Il Fatto Quotidiano, portare tanto pubblico a vedere un bellissimo film indiano lontano da Bollywood: “I. D.” (dove l’acronimo sta per Carta d’identità) del keralese Kamal K. M., sorta di viaggio agli inferi compiuto da una giovane donna della Mumbai borghese alla ricerca dell’identità di un povero operaio morto mentre le imbiancava l’appartamento: il film, carico di suggestività visiva dominata dal grigio di una città dove il sole non sembra splendere mai, oppone quasi pasolinianamente la città verticale (sarà questo il principale carattere delle nuove città smart che avanzano?) e affluente dove vive la ragazza alla città orizzontale dei miserabili slums di periferia dove lei stessa finisce nella sua vana ricerca delle radici di quel morto.
E quel viaggio fa emergere un’umanità derelitta e anonima, raramente inquadrata dal cinema.
E ancora, fare il pieno con pellicole come “L’étoile du jour” di Sophie Blondy, piccola storia di un circo di provincia attendato in riva a un mare desertico, film duro e a suo modo poetico nel suo raffigurare il contrasto tra il microcosmo circense denso di umori e lo spazio infinito, che sterilizza quei contrasti abbracciandoli; e “Shadow Dancer” di James Marsh, che racconta una vicenda di terrorismo segnato da venature familiari.
Ed anche dimostrare che il cinema italiano non è così a corto di idee, come nel caso di “Su re” di Giovanni Columbu, asciutta e singolare rivisitazione ambientata nel Supramonte barbaricino e recitata in dialetto sardo, della Passione e morte di Cristo raccontata dai Vangeli.
Insomma, come nelle tre edizioni precedenti guidate da Amelio, la scommessa del Torino Film Festival è vinta, perchè alla fine, insieme ai film, ai registi e agli attori, contano anche i numeri che sono trionfali, tutti con il segno positivo
Nell’anno nero della recessione, sono stati venduti più biglietti, sono aumentati gli accrediti, la stampa straniera ha manifestato maggior interesse rispetto al passato e tutto questo con meno di 2 milioni di euro, contro 12 spesi per il flop di Roma.
Ha Torino, in questi giorni e nei tre anni precedenti, come ha detto Ettore Scola ospite speciale, si è visto un cinema pieno di fermento e di passione e, per quanto riguarda quello nostrano, animato da un vero amore per il Paese, con racconti autorali ma comprensibili, che narfrano fatti e misfatti particolari e che, nel bene e nel male, ci caratterizzano.
Mi viene in mente il logo del festival di Roma, gli animali esotici perduti in mezzo al mare e al cielo, una zattera di vita in transito, metafora di un cinema alla deriva che però, come ha dimostrato Torino, può ancora trovare un pubblico infinito, se solo lo sa cercare.
Venendo ai premi, ha ragione chi scrive che quest’anno Torino ha decretato il trionfo del cinema inglese, non solo per il premio a Loach, ma anche per il premio come miglior film a “Shell” dell’esordiente Scott Graham, incoronato dalla giuria presieduta da Paolo Sorrentino e composta da Karl Baumgartner, Franco Piersanti, Constantin Popescu e Joana Preiss, che ha avuto il coraggio di dare la palma del vincitore ad un un road movie ambientato in una stazione di servizio nel bel mezzo delle Highlands scozzesi, con due sparute presenze umane (il protagonista ed il padre), la cui quotidianità è spezzata di tanto in tanto dai pochi automobilisti di passaggio.
Migliore attrice la tedesca Aylin Tezel per “Breaking Orizons” e miglior attore il mongolo Huntun Batu per il film “The First Aggregate”, mentre il premio speciale è stato assegnato ex aequo a “Noi non siamo come James Bond” di Mario Balsamo e “Pavilion” di Tim Sutton.
Quanto poi ai premi del TFF doc, miglior film internazionale è stato “A Ultima vez que vi macau”di João Rui Guerra da Mata e João Pedro Rodrigues; con premio speciale a “Leviathan” di Lucien Castaing-Taylor e Véréna Paravel; miglior documentario: “I dont speak very good, I dance better” di Maged El Mahedy; premio speciale a “Fatti corsari” di Stefano Petti e Alberto Testone e menzione speciale (meritatissima) a “La seconda natura” di Marcello Sannino.
Quanto ai premi rivolti al cinema giovane o minore (quanto ad impegno produttivo), quello dei corti è andato a “Spiriti” di Yukai Ebisuno e Raffaella Mantegazza; lo speciale e premio Kodak a “In nessun luogo resta” di Maria Giovanna Cicciari; la menzione a“Un mondo meglio che niente” di Cobol Pongide e Marco Santarelli; il premio per il miglior film sul mondo del lavoro a “Nadea e Sveta” di Maura Delpero e, infine, quello Bassan arte e mestiere a Mikael Marcimain, scenografa (anch’essa inglese) del film “Call Girl” di Mikael Marcimain.