Lettera-appello del presidente di Società Aperta, Enrico Cisnetto, pubblicata dal Foglio
ECCO PERCHÉ NON ABBIAMO FIRMATO
IL MANIFESTO DI OSCAR GIANNINO
ECCO PERCHÉ INSIEME DOBBIAMO FARE
IL “PARTITO CHE NON C'E”
Caro Direttore,
mi è stato chiesto di apporre la mia firma in calce al cosiddetto “documento Giannino”, che il Foglio ha ospitato. Ho declinato. Per motivi di metodo e di merito. Ma ciò non significa che, anche nella mia veste di fondatore e presidente di Società Aperta, non abbia apprezzato lo spirito dell’iniziativa, che, ritengo, vada nella (giusta) direzione di svegliare le coscienze di fronte al declino dell’Italia (termine di cui rivendico, in omaggio alla coerenza, una delle primogeniture) e di provare a dar loro uno sbocco politico concreto. Ed è per questo che intendo rendere pubbliche le ragioni del mio diniego, nella speranza che questo serva – più della mia firma tra tante – a favorire la costruzione di quello che da tempo chiamo “il partito che non c’è”, di cui l’Italia ha assoluto bisogno se vuole evitare di fare la fine della Grecia.
Tralascio le questioni di metodo, più private, e vado subito al merito. Qui i miei distinguo si basano su tre questioni, che illustro in ordine crescente d’importanza: ciò che c’è scritto nel documento, quello che non c’è e ciò che è sottinteso. Sul primo punto non ci sono seri motivi di dissenso. L’ho trovato parziale nell’analisi – manca la constatazione del fallimento della Seconda Repubblica e le ragioni, mentre si preferisce una generica condanna della classe politica – e limitato nelle proposte.
Ma se fosse solo questo, non ci sarebbero problemi: sono sicuro che anche ciascuno dei firmatari avrebbe volentieri inserito qualcosa. I problemi, invece, arrivano quando si guarda a ciò che manca nel documento e si analizza il mix tra il vuoto e il pieno alla luce della cultura politica ed economica di coloro che lo hanno scritto. Faccio subito un esempio per farmi capire. Entrambi diciamo: si usi il patrimonio pubblico per ridurre il debito. Bene. Ma io aggiungo tre cose: a. che i due terzi del ricavato servono per ridurre il debito e un terzo per fare investimenti in conto capitale; b. che non bisogna cedere direttamente immobili (per evitare la caduta dei prezzi) e partecipazioni (Eni, Enel, Finmeccanica sono strategiche), ma gli uni e le altre devono andare in Borsa attraverso una società veicolo da quotare; c. che per la riuscita dell’operazione occorre obbligare i patrimoni privati sopra una certa soglia a sottoscrivere, in modo progressivo, i titoli di quella società. Sì, una patrimoniale, solo che non è un’odiosa tassa ma un più accettabile e meglio finalizzato investimento coercitivo.
Dettagli? Non credo. Il mio timore è che, al di là delle intenzioni, si ripeta la svendita degli anni Novanta, perché tali furono le privatizzazioni di allora. Mentre nel piano da me indicato (come in altri simili) l’alienazione dei beni immobili e di partecipazioni non strategiche viene affidata al management della costituenda società – nei tempi e nei modi che il mercato suggerirà – il controllo della quale rimane comunque in capo al Tesoro (almeno per il 40%).
Insomma, parliamoci chiaro: nell’un caso l’obiettivo primario è lo “Stato minimo” e lo strumento della crescita è lasciato solo alla “mano invisibile” che muove il mercato, secondo una visione liberista e mercatista della dinamica individui-società-Stato-economia. Mentre nell’altro caso, si propone un progetto “libeal-keynesiano” – che non è un ossimoro, se si usa la concretezza del pragmatismo al posto del solito approccio ideologico-schematico – il quale chiede contemporaneamente “più Stato” – nel senso dell’assunzione di responsabilità della politica di indicare un modello di sviluppo e di intraprendere tutte le azioni di politica industriale, compresi gli investimenti strategici che i privati non fanno, necessarie a realizzarlo – e “più mercato”, nel senso delle liberalizzazioni necessarie a far sprigionare al meglio tutti gli “animal spirit” presenti nella società.
Il primo è un progetto di destra liberale, il secondo di sinistra riformista (culturalmente debitrice a Ugo La Malfa) se vogliamo usare definizioni forse un po’ superate ma che non cancellano le distinzioni. La prima era la piattaforma su cui è nata Forza Italia, che non è come dice Antonio Martino solo “una buona idea fatta camminare sulle gambe sbagliate” (peraltro proprio lui reitera l’errore, se è vero che è tornato al essere l’ideologo di Berlusconi), ma anche un’idea di cui la crisi finanziaria mondiale si è incaricata di far esplodere le molte contraddizioni. L’altra, quella di cui Società Aperta si è fatta promotrice e interprete, è invece una piattaforma inedita nell’Italia del bipolarismo straccione, che potremmo definire ideale per la convergenza tra le forze più dinamiche della società, siano esse di stampo liberale (ma senza forzature ideologiche) o di stampo riformista o post-socialdemocratico (mai comunque debitrici al marxismo e alle sue declinazioni).
Caro Direttore, come vedi ci sono notevoli differenze. Che però non debbono essere motivo di contrasto, bensì di sana e costruttiva dialettica. Tra l’altro, ho letto che con piacere che proprio tu hai colto nel dibattito di questi giorni sul cosiddetto “pensiero unico” non la componente immaginaria del “furto d’informazione”, bensì quella più vera della necessità di trovare una nuova sintesi culturale tra liberali e keynesiani per poter fare efficacemente i conti con i nuovi paradigmi imposti dalle grandi rivoluzioni economiche degli ultimi due decenni. In questo mi sento pienamente impegnato, e chiedo agli amici firmatari del “documento Giannino” di fare altrettanto. Le pagine del Foglio, se Giuliano lo vorrà, sono il luogo ideale per incontrarci.
Partiamo dalla consapevolezza che “la casa brucia” e che occorre pazientemente costruire momenti di convergenza tra tutti coloro che vogliono dare “continuità alla discontinuità” rappresentata dal governo Monti, per non tornare indietro, sia dal punto di vista politico – cioè alla improduttiva contrapposizione destra-sinistra – sia sotto il profilo dell’impegno nell’opera di risanamento dei conti pubblici. Ma che, nello stesso tempo, sentono il bisogno di correggere la rotta, scegliendo la via di una maggiore fermezza nel porre ai partner europei (tedeschi, ma anche e soprattutto francesi) il tema dell’unità politica come unico antidoto alla speculazione dei mercati, e assumendo la riduzione del debito e non l’azzeramento del deficit (perseguibile solo con inasprimenti fiscali e provvedimenti recessivi) come obiettivo fondamentale.
Per far questo occorre costruire “il partito che non c’è”, un “partito di salvezza nazionale” che sia la nuova casa comune degli italiani riformisti e moderati. Le strada per costruirlo è impervia. Ma proprio per questo la convergenza delle forze è più che mai necessaria, senza fughe in avanti da parte di nessuno.
Leggi il documento originale su “Il Foglio” di mercoledì 1 agosto
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