Di Carlo Di Stanislao
Ne parliamo solo ora, anche perché l’edizione di quest’anno è stata piuttosto deludente e sotto tono, ma il 20 luglio scorso (anche se le proiezioni sono avvenute la settimana prima, dal 6 al 14 del mese), si è conclusa la 18° edizione del Sarajevo Film Festival, il più importante della Europa sud-orientale, con la vittoria divisa tra quattro film e quattro nazioni e il verdetto finale della giuria, presieduta dal regista Kornél Mundruczó, che ha assegnato l’Heart of Sarajevo al romeno “Toata lumea din familia noastra – Everybody In Our Family” di Radu Jude; il premio speciale al turco “Beyond The Hill / Tepenin ardi” di Emin Alper; quello di miglior attrice a Marija Pikić per “Djeca – Buon anno Sarajevo” di Aida Begić e di migliore attore a Uliks Fehmiu per il serbo “Redemption Street – UstaniÄka Ulica” di Miroslav Terzić.
Anche se si riconoscono i meriti dei film premiati, forse avrebbe meritato di più “Present Tense – Simdiki Zaman”, film del turco di Belmin Söyleme, che racconta di Mina che cerca lavoro a Istanbul mentre aspetta un visto per gli Usa. Finisce a leggere i fondi di caffè in un bar a fianco della più esperta Fazi. L’attrazione verso il proprietario del locale Tayfun è un elemento che accentua il suo essere divisa tra partire e restare. Un’opera prima molto interessante, fatta di silenzi, atmosfere intense e immagini molto curate.
Si è anche detto che fra le quattro donne in concorso (Begić, Söylemez, la macedone Teona Strugar Mitevska di “The Woman Who Brushed Off Her Tears” e l’austriaca Ruth Mader di “What Is Love”), non è stata premiata l’opera migliore e che “Redemption Street – UstaniÄka Ulica” di Miroslav Terzić, film certo destinato al grande pubblico, non meritava premi, dal momento che è prevedibile nel suo sviluppo e zeppo di buchi di sceneggiatura.
Tra i cortometraggi è stato premiato “The Return / Kthimi” della kosovara Blerta Zeqiri, il ritorno a casa di un uomo scomparso durante la guerra che scopre la drammatica storia di violenza vissuta dalla compagna. Menzioni speciali al bulgaro “The Paraffin Prince” di Pavel G. Vesnakov e al romeno “Daddy Rulz – Tatal meu e cel mai tare” di Radu Potcoava. L’Heart of Sarajevo onorario è stato consegnato al produttore croato Branko Lustig, che ha lavorato nei kolossal jugoslavi come “Kozara” e a Hollywood, in “Schindler’s List” e nei più recenti film di Ridley Scott, da “Il gladiatore” ad “American Gangster”. Il pubblico ha confermato quel che il resto del mondo aveva decretato nel corso della stagione: il francese “Quasi amici” di Olivier Nakache ed Eric Toledano ha avuto l’incredibile media voti di 4,97 su 5.
L’unico film italiano in concorso era è “Amore 14” di Federico Moccia, scelta davvero inopinata ed infelice, dal momento che il nostro cinema sa davvero fare di meglio.
“Amore 14” è il primo (e purtroppo non unico), film dell’inutile autore di successo (su schermo grande e piccolo e come libri), Federico Moccia, che qui, come altrove, alle rappresentazioni di un'adolescenza sguaiata e triviale (ma interessante) come quelle dei teen movies americani o a quelle di giovani turpi e dissolute come le protagoniste di Thirteen, preferisce le acque tiepide e noiose di un tempo delle adattato al tessuto sociale della gioventù romana e ritmato dai diversi generi dei brani che compaiono sulle classifiche recenti.
Nel Moccia-mondo, filiera artistica che procede a ritmi serrati, si ragiona per stereotipi e categorie perché è la velocità quello che conta. Velocità di fruizione e di ritmo di produzione, dove gli spazi più ponderati sono riservati alle operazioni di product placement e a quei marchi che garantiscono una visione del mondo nel nome della normalità, della leggerezza e del pronto consumo.
Uno qualunque dei sette film selezionati per il Roseto Opera Prima o magari “Workers – Pronti a tutto” di Lorenzo Vignolo, ci avrebbero rappresentati con tutt’altro onore.
Sono molti, in effetti i problemi del cinema italiano e, fra questi, il fatto che non viene promosso e non aiuta i giovani autori.
Il problema è di sistema, se è vero che i fratelli ottuagenari Taviani hanno riportato l’Orso d’oro in Italia dopo 21 anni, ma nessuno tiene conto del fatto che un’industria sana si alimenta di nuove forze e non gioca sempre al risparmio, esponendo vecchie glorie.
E anche sul versante serio, diverso da quello di Moccia, sono piuttosto deluso dal veder sostenuti solo i pur bravi (ma non unici) Paolo Sorrentino e Matteo Garrone.
Vorrei tanto si parlasse, esportasse e sostenessero le opere prime e seconde degli Amodei, dei Michele Rho, dei due De Serio o, ancora, pellicole come “Wokers-Pronti a tutti”, divertente commedia sul precariato di oggi, con un cast di livello e senza nessuna pretesa, se non quella di farci uscire dal cinema col sorriso e con una punta di cinismo, perché anche i “lieti fine” sono costretti ad adattarsi di questi tempi.
Tornando alla dimessa edizione 2012 del Sarajevo Film Festival, unica nota davvero ravvivante la presenza, il 7 luglio, di Angelina Jolie, che ha aperto la sezione Talent Campus e ritirato l’Honorary Citizen of Sarajevo Award, in quanto, dal 6 aprile scorso, è cittadina onoraria per il suo “contributo nel preservare la verità sulla guerra a Sarajevo e in Bosnia Herzegovina”, attraverso il suo primo film da regista, “Nella terra del sangue e del miele”, premiato qui lo scorso anno.
Un film bello (con qualche riserva), duro come un pugno nello stomaco, in cui la Jolie, autrice anche della sceneggiatura, mostra di aver approfondito le vicende belliche e i drammi di migliaia di donne, ma esagera nel voler dare troppa dimostrazione di conoscere ciò che racconta.
Il risultato è un melodramma a tinte forti, dove il contesto è solo abbozzato (tranne qualche sottolineatura sui cetnici e accenni all’antica battaglia di Kosovo Polje) e dove non vengono risparmiate le inutili efferatezze.
Alla Jolie non si può negare il coraggio e una certa abilità nella regia muscolare, con il risultato è un film che sembra più europeo che americano (a differenza, ad esempio, della’altra regista-dura come il ferro, Kathryn Bigelow), con più di un momento interessante e nell’insieme da promuovere pur con qualche riserva.
Allo scorso Berlinate (quello vinto dai Taviani), il direttore Dieter Kosslick, per inaugurare la sessantaduesima mostra, volle due film di donne su argomenti di storia, perché, disse, le donne guardano alla storia con gli occhi umili delle umiliate.
E si partì con Benoït Jacquot, che racconta in Les adieux à la reine ( Gli addii alla regina ) gli ultimi giorni della monarchia francese, nel luglio 1789, scegliendo come “guida” la giovane Sidonie (Léa Seydoux), lettrice e forse qualche cosa di più della regina Maria Antonietta (Diane Kruger). Volubile e infelice, la sovrana condivide a volte le proprie confidenze con la sua giovane inserviente ma quello che per Sidonie è una specie di rapporto privilegiato, nel momento del dramma (quando tutti pensano a fuggire) si rivela per quello che è: un legame paternalistico e interessato. Un film che , pur regalando allo spettatore momenti di buon cinema, come le concitate scene nei corridoi, a lume di candela, dove una macchina da presa mobilissima si muove “smarrita” come Sidonie, scivola più spesso in una ricostruzione freddamente elegante, dove i drammi dei potenti – a cominciare dall'amore della regina per la bella duchessa de Polignac (Virginie Ledoyen) – rischiano di sembrare solo superficiali (come era accaduta alla giovane Coppola con “Marie Antinette”).
E poi venne presentato il decisamente più ambizioso In the land of blood and honey ( Nella terra del sangue e del miele, appunto), con la Jolie impegnata a raccontare l'impossibile amore tra un serbo e una bosniaca, lui cristiano (Goran Kostic) lei musulmana (Zana Marjanovic), lui soldato lei pittrice (capita la metafora? virilità contro creatività), assieme alla tragedia delle donne (da sempre l'obiettivo più facile su cui sfogare l'odio e la violenza) e anche la pavidità dei potenti del mondo (intervenuti quando era troppo tardi).
E anche in quella occasione dovemmo convenire con Paolo Meleghetti, che il problema della Jolie, e del film, che pure non ci risparmia né gli stupri etnici né le fosse comuni, è che vuole mostrare la tragedia della Storia come a Hollywood mostrano le disavventure delle eroine dei fumetti: immagini cartolinesche, inquadrature scolastiche, mai qualcosa fuori posto nemmeno le macerie, musica etnica e persino qualche ralenti per spiegare che quando i due protagonisti fanno l'amore il tempo prende un altro passo.
Sicché, dopo 126 minuti, nessuno può mettere in dubbio la buona volontà della regista (che si nega anche l'happy ending), ma neanche che in molte parti, l’opera suona falsa e appare lontanissima dallo sguardo morale cui ambiva.