La trattativa tra Stato (o suoi pezzi infedeli) e mafia ci fu, a dirlo è Giovanni Brusca, pentito di Cosa nostra. Sentito nell’aula bunker di Rebibbia a Roma durante la terza giornata di incidente probatorio disposto dal gip di Caltanissetta nell’ambito della nuova inchiesta sulla strage di via D’Amelio che vede indagati i boss Salvo Madonia, Vittorio Tutino, Salvo Vitale e l’ex pentito Calogero Pulci. Brusca, interrogato dai pm nisseni e dal legale di Madonia, l’avvocato Sinatra, ieri, per oltre 9 ore, ha parlato della trattativa tra Stato e mafia. Oggi, nell’aula bunker del carcere di Rebibbia, deporrà il pentito Gaspare Spatuzza che con le sue dichiarazioni ha consentito la riapertura dell’inchiesta. Spatuzza ha tirato in ballo Tutino, accusandolo di avere rubato la 126 imbottita di tritolo e poi usata per uccidere Borsellino, e Vitale che avrebbe avvertito il commando di cosa nostra guidato da Giuseppe Graviano dell’arrivo del magistrato in via D’Amelio.
Lo “scannacristiani” Giovanni Brusca ha raccontato che non solo la trattativa ci fu, ma che furono anzi molteplici, con diversi oggetti e protagonisti, la più importante delle quali (almeno tra quelle di sua conoscenza) è quella portata avanti dal boss Totò Riina con i carabinieri del Ros. Il pentito, che per primo parlò del papello con le richieste alle istituzioni a cui il capomafia corleonese avrebbe subordinato la fine della strategia stragista, ha poi raccontato di avere saputo da Riina che tra i soggetti che nel tempo avevano mostrato interesse a dialogare con Cosa nostra c’erano, oltre all’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri e il leader della Lega Umberto Bossi. Brusca poi ha ribadito che fra l’87 e l’88 Cosa nostra, su indicazione di Riina, avrebbe votato per il Psi e in particolare per Claudio Martelli.
Brusca ha poi parlato di un altro tentativo di “dialogo” con lo Stato avviato nei mesi di marzo-aprile del 1992, prima quindi della strage di Capaci. Per spingere lo Stato a scendere a patti con Cosa nostra, insieme all’ex bandito della Mucciatella Paolo Bellini e al mafioso Nino Gioè, poi morto suicida in carcere, Brusca aveva già parlato dell’idea di colpire i monumenti storici. Bellini, piccolo criminale, alias Roberto Da Silva “esperto di opere d’arte” avrebbe avuto spesso rapporti coi boss, fatto recuperare quadri rubati ai carabinieri, e commissionato furti alla mafia. Gioè gli avrebbe chiesto cosa sarebbe successo se “un giorno la torre di Pisa non fosse più esistita” e lui avrebbe risposto che “la città sarebbe stata messa in ginocchio”.
Le dichiarazioni di Brusca da un lato confermano l’esistenza di una trattativa tra Stato e mafia con al centro l’omicidio Borsellino. Dall’altra allargano lo spettro dei convolgimenti politici con accuse tutte da verificare. La coltre di fumo attorno alla strage di via D’Amelio resta spessa.