Due piccoli imprenditori si sono suicidati nei giorni scorsi per le difficoltà di accesso al credito. Negli ultimi tre anni, per la crisi, sono già una cinquantina nel solo veneto, la patria delle Pmi, gli imprenditori che si sono tolti la vita. Si tratta ormai, come dice Bortolussi della Cgia di Mestre, di un vero e proprio dramma sociale.
Secondo lo stesso istituto nel secondo semestre del 2011 abbiamo toccato il record di contrazione negativa al credito per le imprese. Eppure sono stati proprio i mercati finanziari, di cui le banche sono la spina dorsale, che hanno provocato la crisi che però viene pagata da cittadini, lavoratori, imprese e famiglie. Non a caso è aumentata la disoccupazione, molte aziende sono state costrette a chiudere e la produzione di beni e servizi, vale a dire la parte sana del Paese è crollata.
Invece le banche, per salvarsi dal fallimento, hanno ricevuto dalla Bce prestiti da restituire con l’interesse dell’1 per cento. Io credo che dopo aver avuto denaro a costi così bassi sia immorale porre dei limiti all’accesso delle imprese al credito, anche a quelle che hanno solo problemi temporanei di liquidità. Uscire dalla crisi significa anche (e soprattutto) consentire alle aziende piccole e medie di poter investire e questo passa attraverso il ricorso al credito e alla possibilità di disporre di liquidità. Anche perché ai dati della Cgia si sono aggiunti i numeri di Intesa San Paolo che, proprio oggi (e proprio loro!), hanno certificato il calo dei consumi delle famiglie italiane.
E’ necessaria una maggiore elasticità e, se gli istituti bancari non ce l’hanno, devono intervenire il governo e il Parlamento con misure che favoriscano l’accesso al credito, sia per le imprese che per le famiglie. Il governo dei tecnici, che queste cose dovrebbe conoscerle bene, deve resistere alle pressioni dei banchieri che dopo aver provocato la crisi economica dovrebbero avere il buon senso di essere almeno copartecipi dello sviluppo.