Il rapporto sull’indice di corruzione delle imprese nel mondo, giunto alla sua quinta edizione, certifica un dato inquietante: in Italia la vera chiave del successo è la bustarella. Non si tratta di una pratica circoscritta che alimenta alcune sacche di illegalità, è un vero e proprio modus operandi ramificato e diffuso esattamente come una fatale metastasi. Con il commissariamento dell’Ue prima e del Fondo Monetario Internazionale poi, è chiaro che siamo all’anticamera del default. Se il Governo ha ridotto in questo stato la nostra economia è anche perché, oltre all’enorme pressione fiscale, scarica sui conti pubblici la più pesante delle tasse: la corruzione, un’imposta occulta da almeno 60 miliardi di euro l’anno.
L’analisi di Trasparency International, un’organizzazione non governativa impegnata da anni nella lotta alla corruzione, prende in considerazione le 28 migliori economie al mondo e l’Italia risulta, nella graduatoria in cui l’Olanda è cosiderata il Paese più virtuoso, al 15esimo posto, ultimo Paese dell’Unione europea, preceduto oltre che da paesi come Stati Uniti, Canada, Giappone e Svizzera, anche da economie in via di sviluppo come Corea del Sud, Brasile, Hong Kong e Singapore. Sulla base di una serie di parametri che vanno a considerare vari settori, dall’agricoltura all’industria, dagli appalti pubblici ai rapporti con la Pubblica amministrazione, l’Italia è l’unico Paese europeo sotto quota 11, considerata la soglia minima di civiltà. Una situazione che dipende essenzialmente da due fattori: la mancanza di strumenti di contrasto adeguati e la percezione della corruzione come di un fenomeno atavico e inestirpabile. Ovviamente si tratta di due condizioni legate tra di loro, perché fin quando non ci sarà una lotta senza quartiere contro questa piaga la tangente sarà sempre considerata, con rassegnazione, un male inevitabile. Ovviamente non è così: basti pensare che nel 2003 il Presidente Lula ha avviato un programma di controllo a tutti i livelli di governo locale che ha ridotto drasticamente il fenomeno, tanto che il Brasile negli anni è diventato più virtuoso dell’Italia. Serve un intervento radicale prima di scivolare ancora più in fondo alla classifica.
Combattere la corruzione si può, il Gruppo IdV al Senato ha presentato un disegno di legge per istituire un Piano Nazionale anticorruzione e introdurre la massima trasparenza negli appalti e nei contratti della pubblica amministrazione, attraverso la costituzione di una Banca dati nazionale dei contratti pubblici e di un registro di ditte e fornitori “certificati”, oltre alla incandidabilità e ineleggibilità dei condannati per reati contro la pubblica amministrazione e all’inasprimento delle pene per i reati di corruzione e peculato. Il tutto senza ulteriori oneri per la finanza. Estirpare il cancro è possibile con nuove regole e nuovi strumenti per farle rispettare, a partire da una maggiore dotazione di risorse per l’autorità giudiziaria: ma bisogna voltare pagina e dare al Paese un’alternativa che abbia a cuore le vere priorità. Vi ricordo che questo Governo non è stato neanche capace di ratificare le convenzioni internazionali contro la corruzione, nonostante la presentazione di nostri appositi disegni di legge anche su questo punto. Questa si chiama malafede. Tant’è vero che, a quanto pare, al danno si aggiunge la beffa: l’Associazione dei componenti degli organismi di vigilanza ha lanciato un appello per evitare che il decreto sviluppo sia usato come cavallo di Troia per cancellare l’organismo preposto a vigilare sulla Responsabilità amministrativa degli enti. Ci accusano di essere catastrofisti e antiberlusconiani ma la realtà è che, ormai, accanto all’emergenza economica e all’urgenza di risanare la finanza pubblica, in Italia c’è una terza gravissima emergenza: la diffusione dell’illegalità. C’entrerà qualcosa il fatto che abbiamo un Presidente del Consiglio che si chiama Silvio Berlusconi?