Lettera aperta a mio padre, Claudio Sampietro
Caro padre,
a maggio scorso mi hai comunicato che dovevi ancora decidere se riconoscermi, dopo quasi mezzo secolo! Per anni mi sono vergognata dell'onta subìta, e “sentendomene in colpa”, ho fatto ciò che potevo, per farmi “accettare” da te e mia madre. Senza trovare corrispondenza di amore o empatia. Ho cercato di giustificarvi: l'età troppo giovane, e soprattutto, l'essere venuta al mondo non desiderata. Ora ho finalmente smesso di vergognarmi, perché chi deve vergognarsi, sei tu. Mia madre, che ammise il suo fallimento, a parziale riscatto, poco prima di morire, con testamento olografo, mi riconobbe di nuovo. E si era sempre crucciata che tu non facessi altrettanto. Hai sempre proclamato che sono tua figlia, ti ho sempre chiamato padre, talvolta sei stato orgoglioso dei miei successi, eppure continui a negarmi il riconoscimento. Ho diritto di sapere perché. E non trincerarti ancora dietro l'impedimento dell'adozione, quell'adozione che tu stesso consentisti: anche da adottati, si rimane figli naturali. È tempo di alleggerire quel fardello traumatico che per troppi anni ha condizionato e segnato la mia esistenza. Tu e mia madre, incapaci di mettere da parte asti e competizioni per occuparvi di vostra figlia, con la vostra condotta “pregiudizievole”, mi avete provocato un enorme danno esistenziale, causa di un'inquietudine che continuerò a provare per il resto della vita. Mi sono “salvata” da conseguenze peggiori, solo grazie a un'infanzia serena nella quale i miei zii-genitori adottivi mi hanno inculcato valori etici sani, utili a sopportare anche le discriminazioni rispetto al figlio “legittimo”, quando a 15 anni venni a vivere con voi. Ma le ribellioni a un clima familiare invivibile, me le faceste pagare estromettendomi da ogni beneficio morale e materiale. Quando a 21 anni, esasperata, andai via di casa, credevo di sfuggire al marchio di “figlia di un dio minore” con le sfide lavorative e di vita. L'esperienza con voi mi ha scoraggiata dal generare figli, nel timore di trasmettere anche a loro insicurezze e frustrazioni che avevo subìto io. Partita svantaggiata, ho perso chance importanti, immersa nelle sfide per dimostrare che valevo, vi “meritavo”. Ho affrontato lotte difficili a cui tu, ancor meno di mia madre, ti sei mai interessato: eravate troppo occupati a farvi la guerra soprattutto per le amichette che frequentavi. Mio fratello ti parla di una “sorella non sorella che gli crea problemi”: se fosse stato educato a considerarsi come fratello, avrebbe mai osato esprimersi così? Chi, privilegiandolo, lo ha avallato a defraudarmi dei miei diritti già prima della morte di nostra madre, se non tu per primo, non riconoscendomi? Chi gli ha creato un terreno fertile per sentirsi figlio unico e specularci, emulando discriminazioni che per una vita mi avete riservato? Credi che le tue due nuove figlie, quando saranno in grado di capire, scoprendo ciò che mi hai fatto, ti considereranno un “buon padre” perché le hai privilegiate? Sei il principale artefice delle tristi vicende dei nostri brandelli di famiglia. Credi che se mi fossero state risparmiate le vicende malvage legate alla morte di mia madre, mi sarei ammalata, sopportando un ulteriore, sconvolgente calvario? Ma tu sei preso egoisticamente dalla tua vita, dalla tua nuova famiglia, e vorresti annientare i rapporti col pregresso. Nella tua ultima lettera, mi “ricordi” che “non ho diritti per via dell'adozione speciale”, di cui sei diretto responsabile. Di “speciale” quell'adozione abnorme e mostruosa (salvando la buona fede degli zii) non ha nulla: avevo abbondantemente superato i 9 anni, mentre la legge 431/67 la prevedeva per i minori di 8, e per di più, abbandonati, mentre io ero affidata agli zii, e i rapporti tra me e voi, non solo non erano stati mai interrotti, come la legge richiedeva, ma paradossalmente intensificati, visto che con voi venni poi a viverci. Non rinneghi il “legame di sangue, e auspichi una definitiva distensione dei nostri rapporti”, mi accusi di “speculare sui fantasmi del passato e di sollecitare il sentimento paterno”, ma agisci in direzione opposta. Mi suggerisci di chiederti “un disinteressato supporto anche materiale”, ma ti sei sempre e solo prodigato per quel fratello definito “dalla mangiatoia bassa”. Dovresti chiedermi perdono per non avermi riconosciuta fin dalla mia nascita. È vero che mio fratello l'hai riconosciuto “solo” a tre anni, ma non altrettanto hai fatto con le tue nuove figlie: qual è la differenza? Per me questa è anzitutto una questione morale, nonché di diritto a una “pari dignità”. Puoi ancora chiudere quest'antica ferita aperta e tentare l'auspicata distensione dei rapporti, che non può essere a senso unico. La mia buona volontà del resto, te l'ho dimostrata anche nel 2009 quando abbiamo chiuso la causa intentata per il riconoscimento. Ho confidato che avresti onorato quel riconoscimento a cui ti eri detto disposto anche nelle lettere intercorse tra i legali. E mi hai di nuovo tradita. È l'ultima opportunità per lasciarti alle spalle quei fantasmi del passato che ti inseguono e ti turbano, pronti a ricomparire finché i conti non saranno pareggiati. Perché non può esserci pace senza giustizia.
Floriana Mastandrea, tua figlia