Mentre l’Italia è declassata sotto il profilo di un’improbabile ripresa economica in tempi ragionevolmente brevi, la richiesta di tagli ai vertiginosi costi della politica nazionale continuano a restare più formali che sostanziali. A parole, ci si è impegnati a semplificare le procedure legislative e la lotta agli sprechi. Ma non basta. Mentre si continua ad insistere per il varo di una giustizia più snella e svincolata da ogni interferenza politica, il nostro debito pubblico aumenta e le discrepanze generate dal Governo Berlusconi continuano a bruciare sulla nostra pelle. Non ci azzardiamo a fare previsioni per il 2012, anno alle porte, ma ci chiediamo come terminerà la scia di polemiche che ha accompagnato, ed accompagna, la manovra fiscale che garantirà un PIL di poco superiore allo 0%. La macchina dello Stato ha bisogno d’essere resa più snella ed efficiente; su questi punti siamo tutti d’accordo. Però l’esistenza di uno Stato ridotto ai minimi termini ed attivo solo per tutelare i pochi diritti essenziali per la sopravvivenza del Paese ci sembra una delle solite utopie all’Italiana, già ben note anche per il passato e sfacciatamente inconcludenti. Le deleghe che il Popolo italiano ha dato ai suoi rappresentanti in Parlamento, non hanno avuto la sperata efficacia. Intanto che, da un lato, s’insiste nel lasciare la massima libertà d’iniziativa politica ai singoli, dall’altro c’è chi frena per proporre, ovviamente, una strada diversa e dalle mete tutte da verificare. Davanti alla possibilità di concretizzare vitali riforme sociali, la macchina politica s’inceppa. Forse volutamente. Nell’impotenza d’agire in modo diretto, si preferisce educare gli italiani alle manifestazioni di piazza, agli scioperi che, poi, non favoriscono le riforme solo sulla carta auspicate. Per evitare il peggio, che è sempre più vicino, sarebbe indispensabile dissipare le incongruenze di uno Stato che dice di voler fare certe cose e, poi, non le fa. Insomma, se s’introducesse il principio della libera iniziativa anche nelle aule parlamentari, anche la burocrazia, che resta un bubbone di vecchia genia, potrebbe essere efficacemente scalzata. Invece, si è preferito intraprendere un percorso in salita con una valanga di leggi, spesso tra loro contrastanti, che hanno introdotto pesanti meccanismi fiscali che, già lo vedremo dall’anno prossimo, andranno a complicare la nostra situazione nonostante i segnali d’insofferenza da parte dalla componente imprenditoriale di questo nostro Paese. Le risorse economiche pubbliche per tamponare la situazione, forse, ci sarebbero. Di fatto, però, si continua a spendere tutto e male il “tesoretto” nazionale. A parer nostro, è venuta a mancare la coscienza d’andare oltre. La nostra linea, purtroppo, è confortata da parecchi segnali che la rafforzano. Al primo posto, dopo di tanto discutere, resta il problema delle privatizzazioni. Nel complesso, la politica preferisce che certe realtà produttive restino in mano pubblica. Le vie di mezzo, già sperimentate, si sono dimostrate fallimentari. Ma s’insiste. Quando va bene, il concetto d’impresa “pubblico/privata” resta quella più osannata. Ne deriva, però, che solo in caso di passivi entra in ballo l’anima “pubblica” dell’impresa interessata. Dato che in altri Paesi funziona, proviamo a liberalizzare la sanità, l’istruzione, l’occupazione. Coinvolgendo la parte “privata” dal Paese a fare quelle scelte, spesso onerose, che sino ad ora restano a carico dello Stato. In altre parole sulle spalle di noi tutti.
Dopo tanti anni d’attento esame sui fatti nazionali, restiamo dell’avviso che l’ipotesi di uno Stato assistenziale è destinata a fallire. Del resto, però, non siamo preparati per un eventuale cambio di rotta. I tagli della politica, che tanto ci preoccupano, restano un palliativo destinato a portarci sempre più lontano da quei cambiamenti sociali che dovrebbero essere il fiore all’occhiello di questa Seconda Repubblica.
Giorgio Brignola