“The Kennedys”: L’ambizione non è un vizio da gente di poco conto

«Cosa di più realistico e, in un certo senso, di più informativo sulla vita degli Usa di un buon serial americano» (M. Augé, Nonluoghi, p. 38), e considerando le polemiche che “The Kennedys” hanno provocato negli Stati Uniti, forse qualcosa di vero nell’affermazione augeana c’è. Ma probabilmente più per comprendere l’immaginario collettivo yankee degli ultimi dieci anni, che per approfondire le vicende di una delle famiglie che hanno segnato la storia non solo degli Usa, ma dell’intero Occidente. I Kennedy rappresentano infatti un riferimento imprescindibile del Novecento poiché, specie con la presidenza di John, sono stati i protagonisti di un mondo ancora sconvolto dal conflitto mondiale e sempre più spaventato dalle derive nucleari della cosiddetta Guerra fredda, la quale, seppur “nata” a Yalta, ebbe il momento di massima tensione con la crisi missilistica di Cuba del 1962. I venti di cambiamento che i Kennedy portarono con sé non furono tuttavia solo di natura politica, ma anche di costume. John Fitzgerald Kennedy fu, almeno nei programmi di governo, il primo leader occidentale realmente libertario e “giovane” (aveva appena quarantatre anni quando fu eletto alla Casa Bianca), che seppe utilizzare a proprio vantaggio le nuove avanguardie tecnologiche della comunicazione. La sua parabola politica può essere considerata a tutti gli effetti la prima “esistenza pubblica televisiva”. Riavvolgendo il nastro dei suoi “brevissimi” tre anni di potere, ci si accorge che quasi tutto abbia detto o fatto sia stato diffuso attraverso il tubo catodico: dal suo celebre dibattito con Nixon durante le presidenziali del 1960, passando per i suoi altrettanto celebri discorsi, studiati ancora oggi nelle facoltà di politologia statunitensi, fino al suo tragico assassinio avvenuto a Dallas e ripreso da alcune telecamere di privati cittadini. D’altronde John Kennedy adorava, e soprattutto sapeva, apparire in video al punto che anche nei suoi momenti privati c’era sempre qualcuno dei suoi amici o parenti che registrava le scene, chissà quanto spontanee, del suo vissuto familiare.
Tutto ciò per dire che Jon Cassar nel girare “The Kennedys” non aveva certo un compito facile. E forse proprio per questo Cassar e, prima di lui, Stephen Kronish, lo sceneggiatore della serie, non potevano non fallire in questo progetto, per molti aspetti, troppo ambizioso.
Questo sceneggiato televisivo, composto da otto puntate e trasmesso in chiaro in queste settimane da La 7, rivela, fin dall’inizio, la sua piattezza espressiva, il suo dipanarsi come uno scialbo romanzo d’appendice che non affonda mai un colpo e non pone mai, veramente, interrogativi. Tutto si muove come in una delle tante fiction che spopolano o hanno spopolato negli ultimi anni: puro intrattenimento basato su fatti storici. Siamo molto lontani dalla maniacale attenzione nei particolari, anche quelli apparentemente più insignificanti, di “A Thousand Days” di Arthur Schlesinger Jr. o dal coraggio di James Ellroy che nei suoi romanzi, oramai di culto, “American tabloid” e “The cold six thousand” propone tesi azzardate quanto plausibili. “The Kennedys” invece scivola via senza lasciare il segno, compiacendosi della bravura dei suoi attori, tra cui emerge uno strepitoso Tom Wilkinson nel ruolo del patriarca Joe. Gli altri attori, dalla Holmes a Kinnear, fino a Pepper, svolgono senza sbavature il loro compitino. La colpa di ciò può forse essere imputata a Kronish che scrive un testo retorico all’interno del quale i vari interpreti, preoccupati essenzialmente di non “stonare”, non possono far altro che rispettare gli angusti limiti dettati dalle ben note personalità dei loro personaggi. In tal modo tutto diventa prevedibile, si può quasi indovinare non solo la battuta che deve essere recitata, ma anche l’espressione del viso, la posizione delle mani, e così via. Insomma le polemiche che hanno accompagnato, almeno negli States, questo sceneggiato appaiono forse un tantino esagerate o, a essere benevoli, costruite ad arte. Alla fine lo spettatore non scoprirà nessuna verità inedita, nessun segreto scabroso, ma al contrario gli saranno confermati tutti i più banali stereotipi che da quasi mezzo secolo accompagnano JFK e il suo clan.

Roberto Colonna

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