di Ilaria Cordì
La nostra vita ci appartiene? Crediamo di dover essere noi gli unici a decidere, nelle situazioni importanti, la cosa più opportuna da fare? Pensandoci bene, sin dalla prima infanzia esiste sempre qualcuno pronto a scegliere le soluzioni migliori ai nostri problemi, nell’adolescenza c’è l’amico che ci spinge verso una decisione, nell’età adulta, marito e famiglia tendono a optare per noi, mentre, nella vecchiaia, siamo troppo stanchi per ragionare e ci facciamo assistere da figli e nipoti. Bene, forse l’unica decisione veramente nostra sarebbe proprio quella della morte, anche se qualcuno non vuole darci neanche quella. Adesso, dopo circa 20 anni di continui dibattiti e più di 20 proposte legge, il giorno 12 del mese corrente è stata approvata alla Camera la legge sul “biotestamento” con 278 voti favorevoli e 205 contrari. Adesso, il testo di questo ddl è al Senato, in attesa di essere confermato. La proposta di legge in questione nacque nel 2008 in conseguenza del caso di Eluana Englaro. Esso è composto da circa otto articoli che spiegano le modalità che il cittadino deve indicare per esprimere le sue volontà. I punti fondamentali sono:
1) “DAT”: ovvero, la “Dichiarazione Anticipata di Trattamento”, che consiste nel riportare la propria posizione in merito ai futuri trattamenti sanitari a causa di una possibile perdita delle proprie capacità di intendere e di volere. Essa sarà valida solamente per coloro cui viene riconosciuta un’assenza di attività celebrale o morte corticale;
2) “Fiduciario”: all’interno della Dat è la persona che avrà il compito di decidere per il malato. Se tale fiduciario non verrà indicato il ruolo spetta ai familiari più prossimi;
3) “Medico”: la volontà di sospendere le cure del paziente non sono vincolanti per il medico, che non è obbligato a seguirle;
4) “Eutanasia”: essa è vietata, così come ogni altra forma di aiuto al suicidio.
Come la legge 40 del 2004 sulla fecondazione assistita, prossima a un referendum anche la legge sul ‘Biotestamento’, che ha portato a numerosi dibattiti sia tra maggioranza e opposizione, sia con la Chiesa, anche se gli unici che dovrebbero poter scegliere se tale norma sia approvabile sarebbero gli stessi malati, cioè coloro che soffrono la malattia nella sua terribile quotidianità, che conoscono le difficoltà delle patologie più gravi, partendo dalle complicazioni motorie fino a quelle respiratorie, cardiache o addirittura terminali. Sono loro gli unici a sapere veramente cosa vuol dire non poter condurre una vita normale, sono loro che passano le giornate in un lettino d’ospedale con le flebo nel braccio e continui controlli invasivi. Non dovrebbe essere lo Stato, né tantomeno la Chiesa, a decidere la cosa più giusta, ma colui che sa cosa vuol dire essere malato, che conosce il dolore e la sofferenza che si prova in determinate situazioni. Perché lasciarli soffrire? Perché continuare a far loro vivere una vita che, forse, non sentono appartenergli più? (Laici.it)