Referendum, Berlusconi e l’opinione pubblica internazionale

Nei giorni scorsi è esplosa in Italia una forte polemica sul giudizio dato dal settimanale britannico The Economist sul personaggio Berlusconi che già una diecina di anni fa aveva giudicato unfit, cioè praticamente inadatto a guidare il nostro Paese. Le ragioni della condanna espressa dalla rivista, considerata la più consultata dalla classe dirigente internazionale, sono fondamentalmente tre: i guai giudiziari del premier italiano (non è vero che è andato sempre assolto, sostiene l'Economist, piuttosto non è mai stato condannato grazie alle leggi che aveva fatto preventivamente approvare), i suoi festini e, soprattutto, perché si è sempre disinteressato dei problemi economici del paese (che va in parallelo col giudizio positivo sulla linea adottata da Giulio Tremonti).
I fedelissimi del capo del governo sono subito insorti accusando il settimanale britannico di nutrire solo pregiudizi nei confronti di Berlusconi, e in genere contro l'Italia. Le analisi meno astiose provenienti da questa parte hanno messo in evidenza che la stampa estera non riesce a centrare il giudizio sui fatti locali perché manca di alcune conoscenze e trascura dettagli che invece sono importanti per comprendere l'andamento delle vicende locali. E così facendo, cioè propagandando un'immagine falsa dei fatti locali, danneggia quella complessiva del nostro paese all'estero. Un vecchio direttore dell'Economist, che oggi frequenta molto l'Italia, ha ammesso quest'ultimo limite, ma ha anche specificato, in suo articolo apparso su un importante quotidiano italiano, che il giudizio del settimanale da lui diretto si basa su standard internazionali.
A questo punto non si può fare a meno di riflettere sulla circolarità di codesti giudizi. E' vero che la stampa estera nell'approccio all'operato degli uomini di Stato (a suo tempo l'Economist è stato non meno impietoso nel giudicare Chirac e Bush, per esempio) adotta criteri di giudizio che prescindono il più delle volte da considerazioni che possono apparire decisive per l'opinione pubblica locale. Ma è anche vero che, in mondo sempre più globalizzato, i giudizi espressi dalla stampa internazionale tornano indietro nel paese di origine e possono anche costituire delle nuove lenti attraverso le quali i cittadini di quel paese incominciano a guardare gli avvenimenti politici e i suoi dirigenti.
Se è vero, per esempio, che il mondo anglosassone attribuisce una maggiore valenza alla vita privata e ai costumi sessuali dei politici, come è stato rilevato non solo per le vicende di Arcore, ma anche per le disavventure di Dominique Strauss-Kahn, non è meno vero che anche il mondo latino ha incominciato a dare più peso a questi “dettagli” della vita privata dei propri uomini pubblici. Non solo l'ex direttore del FMI ha visto insorgere anche in Francia donne alle quali aveva riservato turpi attenzioni (e, per solidarietà con queste, le ministre europee), ma anche l'insuccesso di Berlusconi a Milano è stato in parte attribuito al fastidio provato dai suoi concittadini riguardo alle sue abitudini private.
Egualmente dicasi per le vicende giudiziarie, in pendenza delle quali nessun candidato a una carica pubblica in America o in Inghilterra è legittimato a presentarsi in una competizione elettorale. Anche nei nostri Paesi i regolamenti dei partiti si stanno sempre più orientando a escludere non soltanto soggetti condannati ma anche semplicemente rinviati a giudizio. Parimenti, anche apparire direttamente o indirettamente responsabili del cattivo andamento dell'economia nel proprio Paese, costituisce il criterio principe col quale l'elettore anglosassone giudica i propri governanti.
Se l'Italia – che non cresce economicamente da quando si è installato Berlusconi al governo (perché ha imposto all'elettorato di appassionarsi solo alle sue vicende personali) – un domani si renderà conto che questo è un metro di giudizio decisivo per valutare l'operato di un politico, probabilmente il giorno dopo si sveglierà più matura politicamente.
L'effetto della globalizzazione anche sui costumi politici, dunque, si fa sentire sempre di più. Come hanno dimostrato le recenti vicende della primavera araba, molti metri di giudizio validi nel mondo occidentale – ripudio del ricorso alla forza per reprimere le manifestazioni, immoralità nell'arricchirsi governando alle spalle della gente, limitazioni della libertà di pensiero e di comunicazione, ecc. – hanno iniziato a circolare anche in società politiche considerate chiuse. Probabilmente è destinata sempre più a diffondersi un'etica pubblica globale trainata anche da istituzioni soprannazionali, come l'ONU e la Corte internazionale per i crimini contro l'umanità.
In questo senso chi adduce ancora a giustificazione dei comportamenti della propria classe politica la prevalenza di parametri di giudizio provinciali è probabilmente destinato a essere superato dalla crescita della coscienza collettiva internazionale che, riferendo di un comportamento più o meno illecito o più o meno etico in una certa parte del mondo, non potrà fare a meno di adottare criteri di giudizio più omogenei a livello internazionale. Questi varranno non solo per stabilire che se un cibo è sofisticato non può circolare in tutto il mondo, ma anche a stabilire che comportamenti che l'opinione pubblica internazionale più avveduta reputa inconvenienti per chi governa dovranno essere banditi sia in USA che in Francia, in Libia, in Cina e in Italia.
Non è difficile ipotizzare un futuro non troppo lontano nel quale comportamenti che si collocano al di là della linea di ciò che l'opinione pubblica internazionale reputa etico, saranno giudicati tipici solo di organizzazioni mafiose o di oligarchie tribali.

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