di Vittorio Lussana
Il calcio, così come il ciclismo, ha rappresentato un mezzo di riconquista della nostra dignità nazionale, quella di un Paese uscito dalla seconda guerra mondiale dopo aver gettato le proprie armi ai piedi sia dei vinti, sia dei vincitori, completamente screditato sul versante della propria identità storica e morale. Proprio per mezzo del calcio, le parrocchie e molte polisportive locali sono riuscite a togliere dalla strada milioni di ragazzi allo ‘sbando’, trasformandoli in uomini consapevoli e responsabili, in grado di affrontare la propria esistenza. Lo sport, in quanto cultura popolare, rappresenta, ancora oggi, una delle poche forme di ‘riscatto’ a disposizione dei ceti sociali più deboli. L’Italia, in particolare, per molti decenni ha rappresentato la grande ‘fucina proletaria’ che ha permesso a molti giovani di uscire da secoli di miseria e umiliazione, consentendo loro di diventare ciclisti famosi, calciatori fantasiosi, pugili coraggiosi. Si capisce perché, dopo l’ennesimo scandalo esploso intorno al cosiddetto ‘calcio-scommesse’, il calcio sia da considerare una passione seria, molto più di quanto non si riesca razionalmente a far comprendere? Non diviene fondamentale, a questo punto, tornare sinceramente a riflettere intorno a uno sport che, nel corso degli anni, è stato trasfigurato da passionalità agonistica a fenomeno meramente ‘mercenario’, sino a causare la morte di ogni sano principio di leale sportività? La diffusione delle pratiche sportive ha rappresentato un dato storico assai importante per l’Italia della ricostruzione post-bellica. Il calcio, in particolare, sin dagli anni del ‘boom’ economico ha assunto un’importanza clamorosa: chiacchierato nei caffè, epicizzato dalla stampa, ammirato alla televisione, esso ha svolto un ruolo fondamentale nella nostra vita quotidiana, poiché molti aspetti ludici e spettacolari si sono spesso combinati insieme a significati ‘secondi’ che, per mezzo del fenomeno del ‘tifo’, hanno sempre alluso a un bisogno di autoriconoscimento in altri campi inappagato. I ‘rovesci’ della nostra rappresentativa nazionale, che sino ai campionati mondiali in Messico del 1970 non raggiunse dei traguardi proporzionati alle aspettative, sono stati compensati dai successi dei club delle nostre grandi città industriali – Torino e Milano – che si sono affermate in Europa. Presieduta da un petroliere lombardo, Angelo Moratti, ma allenata da un singolare ‘Cagliostro ispano-argentino’, Helenio Herrera, l’Internazionale di Milano, per esempio, ha incarnato al meglio il volto ambiguo della modernizzazione italiana: mentre la società veniva amministrata con un piglio schiettamente ‘aziendalistico’ e manageriale, la squadra rappresentava una sorta di ‘armata Brancaleone’ in cui convivevano indigeni e stranieri, come lo spagnolo Suarez e il brasiliano Da Costa, i quali si affidavano ai sortilegi negromantici e alle singolari tecniche di condizionamento psicologico predilette dall’allenatore. Attorno al calcio, inoltre, si sono sempre accese discussioni che hanno oltrepassato la cronaca sportiva presa di per sé, abituando gli italiani a porsi delle questioni sull’indole della propria identità più profonda, fino a dividerci in due fazioni: i sostenitori del giuoco d’attacco, capeggiati dai giornalisti Antonio Ghirelli e Gino Palumbo, che hanno sempre espresso la convinzione che il progresso economico ormai potesse consentire ai nostri calciatori di essere “come gli altri” e di battersi da pari a pari con qualsiasi avversario; e i fautori del ‘difensivismo’ e del ‘contropiede’, in primo luogo Gianni Brera, autorevole redattore de ‘Il Giorno’ dal fraseggiare irto di reminiscenze ‘gaddiane’, il quale riteneva che agli ‘italianucci’, denutriti da secoli ed etnicamente compositi (liguri, celti, alpino-dinarici) non fosse permessa altra furberia se non quella del giuoco ‘di rimessa’. Da una parte, si sono sempre schierati i partigiani un po’ ingenui della modernità livellatrice e cosmopolita; dall’altra, i pessimisti epigoni di quel Guicciardini il quale era solito affermare che: “Se ti fiderai delli italiani, sempre avrai delusione…”. La questione rimane sostanzialmente aperta ancora oggi nei termini di una chiara e precisa nostra identità nazionale: chi siamo, veramente, noi italiani? Siamo quelli che debbono sopperire con l’ingegno e la fantasia alla nostra scarsa prestanza fisica? Oppure siamo finalmente in grado, oggi, dopo decenni di trasformazioni sofferte, di essere al pari delle altre nazioni del mondo? Qui non si tratta più della semplice esigenza di ricomposizione di calendari e campionati, bensì ci ritroviamo di fronte all’evidenza di uno sport che, già da decenni, non si incentra più sui vivai, sullo spirito di sacrificio sportivo, sul sudore e sugli allenamenti. Cosa rimane, dunque, ai nostri giovani? La ‘play-station’? Le alienanti ‘macarene’ di gruppo? Le ‘canne’? E siamo sicuri che, in questo modo, essi riusciranno a crescere in una maniera sana, che non diventeranno obesi già a 12 anni o ‘rincitrulliti’ a 20?(Laici.it)