Operazione Minotauro, quando il Piemonte è ‘ndranghetista

di Matteo Zola

“Un autonomo sodalizio”. Così il Procuratore capo di Torino Gian Carlo Caselli definisce la ‘ndrangheta in Piemonte. “Autonoma ma con radicamenti innegabili al sud, in Calabria”, aggiunge Giuseppe Pignatone, procuratore di Reggio. E la duplice presenza di Caselli e Pignatone restituisce la portata dell’operazione “Minotauro”. Cinque anni d’indagine “portati avanti da uomini straordinari con mezzi ordinari” afferma quasi commosso, in conferenza stampa, il colonnello De Vita. Tre distinti filoni d’indagine poi confluiti in un unico immenso dedalo di nomi, fatti, connessioni. Ben 191 persone iscritte nel registro degli indagati, 141 i mandati di custodia cautelare spiccati dal gip, due dei quali eseguiti in Calabria. Solo due, il resto è tutta una “questione settentrionale”. Tra i reati contestati: associazione a delinquere di stampo mafioso (416 bis), detenzione illegale di armi, traffico di stupefacenti, gioco d’azzardo, riciclaggio ma anche “voto di scambio” (416 ter) reato che coinvolge esponenti politici e della pubblica amministrazione.

Politica e ‘ndrine. Nevio Coral e non solo. “Stupisce e amareggia che ci siano numerosi casi singoli che riguardano politici e amministratori usi a intrattenere rapporti d’affari e di scambio con persone riconducibili all’entourage mafioso. Nella città in cui Bruno Caccia è stato ucciso, che ci siano personaggi disposti a trescare con mafiosi o paramafiosi è inaccettabile”. Queste le parole di Caselli a stigmatizzare le connivenze tra le istituzioni locali e la ‘ndrangheta. Poi però, quando si chiedono i nomi, risponde “varie persone sono coinvolte a vario titolo, le indagini sono ancora in corso” ma tra le 2542 pagine dell’ordinanza spicca il nome di Nevio Coral, già sindaco di Leinì per dieci anni e noto imprenditore locale, titolare della Coral spa con sede a Volpiano, gruppo industriale che opera nel settore ecologico della depurazione e trattamento dell’aria e dell’acqua.

“Si tratta di un soggetto – spiega Caselli – ben collocato nell’ambiente ‘ndranghetista, che si guarda bene dal denunciare, che trae vantaggio, promette distribuzioni di posti di lavoro e cariche amministrative”. Non un soggetto passivo, quindi, poiché è lo stesso Coral che, come riportato dalle intercettazioni, afferma: “Prendiamo uno e lo mettiamo in comune, l’altro in consiglio, l’altro in pro loco, così abbiamo nostri dappertutto e diventiamo un gruppo forte”.

Nel suo sito internet Nevio Coral ricorda quando la sua amministrazione dedicò il Palazzetto dello Sport al giudice Giovanni Falcone, “un esempio per le generazioni future”. Già, future. Quelle presenti forse meno. L’esempio di Falcone non sembra esser servito granché a Coral se in sede processuale verranno confermate le accuse a suo carico. Accuse pesantissime: associazione mafiosa, in questo caso alla ‘ndrangheta. L’associazione culturale fondata da Coral, “Nuove Energie”, è un gruppo finalizzato al coinvolgimento della società civile nella politica. Si legge sempre sul suo sito: “L’attività di Nuove Energie si è concretizzata con l’elezione di propri rappresentanti in diversi consigli comunali di Torino e provincia e ha contribuito all’elezione di Caterina Ferrero, nuora di Nevio Coral”. Caterina Ferrero, assessore regionale alla Sanità della giunta Cota, è stata recentemente raggiunta da un avviso di garanzia per turbativa d’asta. Nessuna evidenza penale lega però i due, e la parentela non è un reato. Dalle carte emergerebbe, pur non essendo oggetto d’indagine, il nome di un altro assessore della giunta Cota, quello al Lavoro, Claudia Porchietto, pizzicata in compagnia di Giuseppe Catalano. L’assessore Porchietto poteva non sapere che Catalano è il capo del locale di Siderno “importato” a Torino.

“Questa operazione è solo una fase”. L’eccezionalità del lavoro dei carabinieri sta proprio in questo saper individuare quali famiglie operavano, in che contesti, con che giri di affari, e per farlo hanno documentato ben 138 riunioni o incontri per trattare argomenti d’ogni genere dell’attività criminale. Tramite intercettazioni, appostamenti fotografici, tassello su tassello i cinque anni d’indagine hanno portato a questo risultato che “è un punto di partenza”, come spiega il procuratore Pignatone. “Le mafie nate nel sud Italia occupano spazi in regioni ricche come il Piemonte. Dunque anche in Piemonte la mafia c’è, ma si può combattere. Sono in corso indagini per individuare altre locali. Il lavoro che si è concluso oggi è solo una fase”.

Nove locali e una “bastarda”. Le indagini hanno svelato la presenza di nove locali (strutture regionali di controllo) di ‘ndrangheta tra Torino e provincia. La Natilie di Careri, in Torino città, e poi Rivoli, Chivasso, Moncalieri, Nichelino, Cuorgné, Volpiano, Nichelino e San Giusto. A queste si deve aggiungere la locale di Siderno che, pur radicata in Calabria, aveva ramificazioni dirette a Torino ed era guidata da Giuseppe Catalano. C’é poi la “bastarda”, una sorta di locale in prova, che ancora non aveva ricevuto tutti i diritti per essere riconosciuta, un soggetto nascente che testimonia la dinamicità della ‘ndrangheta piemontese. Tutte le locali fanno capo al Crimine. Capo-crimine locale è Adolfo Crea. La famiglia Crea ha da anni ormai soppiantato i Belfiore, che un tempo comandavano nel torinese.

Basso profilo, grandi ricchezze. Una dinamicità che non si svela con atteggiamenti “sopra le righe”. Tutti gli affari della ‘ndrangheta sono condotti sotto traccia, senza esibizioni. A dirlo è il procuratore aggiunto Perduca, che spiega come all’attività di polizia si sia affiancata quella della Guardia di Finanza di Torino e dei reparti dello Scico di Roma, specializzati nel contrasto alla criminalità organizzata. I numeri del sequestro sono da capogiro: ville, appartamenti, autorimesse, veicoli, quote societarie e aziende per 117 milioni di euro. Non si pensi però ad auto di lusso o ville hollywoodiane, la ‘ndrangheta vuole passare inosservata. Per questo il lavoro delle Fiamme Gialle è stato difficile, e c’era la necessità di non destare sospetti negli indagati. “Si è trattata di una corsa contro il tempo” ha detto Perduca “Gli accertamenti si sono svolti in tempi estremamente contratti, e sono iniziati verso fine 2010 quando le indagini dei carabinieri si sono tradotte in richieste di custodia cautelare. C’era la necessità di colpire i clan su due lati, quello di polizia e quello finanziario, in modo da togliergli ogni possibile rendita”.

A finire sotto la lente dello Scico circa 170 società e imprese, ben 123 indagati assieme a 333 familiari comviventi per un totatle di 600 soggetti. I sigilli sono stati posti su dieci aziende e su più di 200 conti correnti e diverse cassette di sicurezza. Tra gli indagati c’erano imprenditori, operai, piccoli commercianti, persino pensionati, tutti con un tratto comune: non ostentare un’eccessiva ricchezza per non tradire l’effettività e l’origine criminale dei loro averi.

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