REFERENDUM

Nonostante i tentativi di una parte della sinistra non mi sembra che i referendum prendano molto piede nell’interesse della gente.

Premesso che – lo dico subito – mi sarebbe sembrato molto più logico votare contemporaneamente ai ballottaggi per avere almeno un taglio dei costi organizzativi, che senso hanno più, comunque, dei referendum come quelli italiani?

Già si capisce poco o nulla sui quesiti referendari, (in)degno specchio di cosa in Italia siano il politichese e “la burocrazia della democrazia”, ma come chiamare ancora la gente a votare constatando poi che nemmeno la volontà popolare – in passato – è stata concretamente rispettata rispetto ai risultati referendari? Dalla responsabilità civile dei giudici al finanziamento dei partiti alla eliminazione di alcuni ministeri non è cambiato nulla.

E c’è poi anche un lato quasi beffardo. Partecipando mercoledì a Torino all’Assemblea del CGIE (Comitato generale degli italiani all’estero) si è appreso che in un intero anno la somma che il ministero può spendere per i problemi dei milioni di italiani sparsi nel mondo, dall’Europa a Sydney, dal Sud Africa agli USA è complessivamente di appena 26 milioni di euro l’anno, ma che la sola organizzazione del voto referendario all’estero costerà ben 27 milioni di euro. Mi sfugge come possa dare un parere motivato sulla gestione dell’acqua pubblica o sul nucleare in Italia un italo-canadese o un residente a Santiago del Cile, ma il diritto al voto è sacro e guaio a chi lo tocca.

Al concreto, però, non so se voterà il 10% degli aventi diritto residenti all’estero, certo che queste persone non hanno avuto alcuna possibilità neppure di minimamente capire di cosa si tratti, ammesso che lo abbiano capito gli stessi italiani perché io stesso non ho capito il senso pratico dei quesiti referendari. Ad ogni modo se all’estero votassero 400.000 elettori (e non credo ci si arriverà) vorrà dire aver speso circa 66 euro a voto, molto probabilmente per non raggiungere nemmeno il quorum, ovvero per buttare via tutto. Non solo: già in passato il bassissimo afflusso estero è servito per non far raggiungere il “quorum” in Italia ovvero danneggiare anche i proponenti i referendum. Non è che sia ora di pensare a qualche riforma pratica sia delle impostazioni referendarie che della organizzazione del voto all’estero?

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