di Matteo Zola
«Quello che ho raccontato in queste pagine non è la narrazione di tutta la ’ndrangheta, ma solo di una parte, e neanche di tutta la Lombardia perché ci sono solo cenni alla provincia di Brescia o a quella di Varese». Con questo autodafé Enzo Ciconte, fra i massimi esperti in Italia delle dinamiche delle associazioni mafiose nonché docente di Storia della criminalità organizzata all’Università di Roma Tre, consegna al lettore la chiave di lettura del suo ’Ndrangheta padana (Rubbettino editore, 2010). L’oggetto della dissertazione di Ciconte è evidente fin dal titolo: quella Padania dall’iniziale maiuscola, politicamente connotata, di leghista invenzione. Non a tutto il nord, quindi, si estende l’analisi e nemmeno a quelle connivenze che pure altri partiti hanno mostrato di avere con le organizzazioni mafiose, ma solo e soltanto la Lega Nord. Lo si evince anche solo da un rapido scorrere i titoli dei paragrafi che compongono il secondo capitolo: «Le responsabilità del nord nella crescita della mafia». Responsabilità che Ciconte imputa del tutto alle genti padane: inutili le consolazioni, puerili le accuse ai “térun” immigrati al nord: in quel nord, dice Ciconte, la criminalità emigrante ha trovato terreno fertile. La fertile pianura padana della mafia.
La domanda che un lettore può facilmente porsi è perché proprio “padana”, con quella connotazione politica che abbiamo detto, e non generalmente “settentrionale” è la ’ndrangheta che ci vuole presentare Ciconte? La risposta è da ricercarsi tra le righe di un’opera che, per questi versi, diventa assolutamente un pamphlet: è il genus padano, quello che si sente moralmente superiore, quello imbevuto di sé e delle proprie retoriche sull’integerrima onestà dei “lùmbard”, a consentire lo sviluppo e l’affermazione delle mafie. È la cecità ottusa, la pretesa assurda di una superiorità, ad aprire le porte alla criminalità organizzata. Sono i “buoni” politici del nord con il fazzoletto verde nel taschino, e gli imprenditori così onesti e operosi, ad aver stretto la mano alla ’ndrangheta che in quelle terre è più forte di qualsiasi altra organizzazione. L’invettiva si indirizza precisamente contro la quintessenza del “padanismo”. La risposta al quesito di cui sopra è tutta qui, Ciconte ha scelto il nord leghista, non tutto il nord, dando così un taglio decisamente politico a quello che resta comunque una mirabile opera analitica.
Ciconte racconta la ’ndrangheta con lucidissima capacità di sintesi consentendo anche al lettore meno esperto di accedere a temi tanto complessi. E così il tono si stempera e si allenta nelle narrazioni, sempre più dettagliate, dei singoli casi di cronaca: Buccinasco, Corsico, Pavia, Desio. Tutte storie in cui la politica e l’imprenditoria si allacciano all’interesse mafioso per pura convenienza. E qui l’autore è bravo ad addentrarsi nei meandri della coscienza del genus padano: il senso di onorabilità, opposto ed uguale a quello meridionale, che si connette alla vergogna del fallimento della propria attività imprenditoriale: la vergogna di ammettere un fallimento e il bisogno di mantenere l’assoluta riservatezza delle proprie condizioni finanziarie per evitare che le banche o altri non diano più fiducia e credito. È in questi interstizi che matura e trae giustificazione la natura ambigua di un rapporto che funziona come una sorta di camicia di forza e che, grazie alle dinamiche del silenzio, viene socialmente sottostimato.
Ma la ’ndrangheta non si limita a condizionamenti esterni e nemmeno si ferma al controllo amministrativo e gestionale, ma si estrinseca nella costituzione di una vera e propria impresa mafiosa con tanto di capitale sociale mafioso. Siffatte società hanno nell’uomo d’onore una direzione occulta che spartisce i lavori con le altre imprese controllate da questa o quella ’ndrina. Una sinergia conveniente all’imprenditore che, fuori dalle logiche del libero mercato, ottiene sempre nuove commesse. Accade persino, e Ciconte ce ne porta esempi, che l’imprenditore stesso interiorizzi il metodo mafioso. «La libera concorrenza – scrive Ciconte – dovrebbe essere il punto di riferimento di ogni imprenditore. Ebbene in terra “padana”, dai grandi imprenditori “padani”, questa regola è stata abolita. Quello che vale è il monopolio, ottenuto con qualsiasi mezzo».
E qui torna centrale quell’aggettivo “padano” a riferirsi tanto alla prassi del partito politico quanto alla mentalità di chi lo vota. Scrive Ciconte: «Non è vero che c’è solo la Lega che controlla il territorio, c’è anche la ’ndrangheta che, esattamente dove c’è un forte insediamento della Lega, gestisce potere, agisce economicamente, fa investimenti, ha una presenza in politica». La ’ndrangheta, quindi, ha una presenza politica dove la Lega ha una presenza politica.
Il binomio Lega Nord e ’ndrangheta è presentato in costante antinomia: controllo del territorio, secessione, padroni a casa nostra, radici e radicamento, sono tutti elementi retorici o lessemi cari al gergo leghista che però Ciconte rovescia: è la ’ndrangheta a controllare il territorio “padano”, a guadagnarci da una eventuale secessione, a essere padrona e radicata. È la ’ndrangheta che governa dove governa la Lega al punto da governare con la Lega. Così l’antinomia può diventare sinonimo: Lega e ’ndrangheta si fondono in un unicum di malaffare, entrambe traendo linfa dallo stesso tessuto sociale, entrambe esito della stessa mentalità.