Il Cammino e il pellegrino di Gladis Alicia Pereyra

Sullo scorcio del Duecento, in una Fiorenza in crisi di trasformazione, industriosa e violenta, che inghiotte il passato come la fabbrica di Santa Maria del Fiore inghiotte la vetusta Santa Reparata, quattro adolescenti intraprendono la rischiosa avventura di diventare adulti. Forze inarrestabili stravolgeranno i loro destini, tracciati fin dalla nascita dai padri, e la vita dei quattro giovani percorrerà sentieri insospettati, nella città dilaniata dalle lotte tra i guelfi Bianchi e Neri.
Il romanzo, insieme a un’accurata quanto godibile ricostruzione di scenari e abitudini della Firenze basso-medievale, propone riflessioni, che non conoscono tempo, sui meandri, a volte molto contorti, dei sentimenti, sulle oscure fonti della violenza e della creatività e sull’impossibile possesso della verità; riflessioni che si azzardano anche nello spinoso territorio del sacro alla ricerca di globalità, di umana completezza.

Il romanzo è stato finalista del Premio all’inedito Palazzo al Bosco, il famoso premio indetto dalla scrittrice Giovanna Querci Favini.

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Sono nata a Cruz del Eje, una cittadina della provincia di Cordoba in Argentina. Mia madre era figlia di italiani; mio padre, un giornalista argentino di ascendenza basca, morì prima del mio secondo compleanno. Sono cresciuta a Cordoba in una famiglia di sole donne: mia madre, due sorelle molto più anziane di me e mia nonna materna: fu lei a insegnarmi ad amare l’Italia. Era nata a Sartirana Lomellina in provincia di Pavia e i ricordi del paese dell’infanzia che mi raccontava come fossero delle fiabe, destarono in me il desiderio di “ritornare” nella terra di origine. Finito il liceo, per colpa di effimeri entusiasmi giovanili, mi dedicai a studiare arte drammatica e più tardi regia cinematografica, tralasciando la scrittura che insieme alla lettura e all’interesse per la storia erano state fino ad allora – e oggi continuano a essere – realtà costanti nella mia vita.
Dopo alcune esperienze teatrali a Buenos Aires, realizzai il progetto maturato nell’infanzia e a lungo rimandato di “ritornare” in Italia. Di ritornare – senza virgolette – sentono, come me, molti figli o nipoti di emigrati, cresciuti lontani dall’Italia ma in un ambiente che ha mantenuto vive tradizioni e cultura italiane.
Contrariamente a ciò che avrebbe potuto desiderare mia nonna, non ho scelto per vivere Pavia o Milano, ma Roma. In questa città, carica di tempo e di storia, mi sento nel mio ambiente naturale.
Qualche mese dopo il mio arrivo, una borsa di studio mi permise di frequentare un corso di regia televisiva presso la RAI di Firenze. In seguito ho lavorato come assistente volontaria alla regia in un film di Franco Rossi e come fotografa per un’agenzia; nel contempo tenevo lezioni private di spagnolo. Furono anni felici ma difficili: finite le risorse portate dall’Argentina, dovevo trovare, o inventare, un lavoro che mi permettesse una certa stabilità economica. La ricerca mi condusse a scoprire la ceramica. I primi risultati furono piuttosto incoraggianti e in un tempo relativamente breve fui in grado di eseguire pezzi unici che venivano apprezzati e soprattutto si vendevano. La ceramica mi insegnò qualcosa di me che non avevo ancora capito: mi piace lavorare, creare in solitudine. Rinunciai al cinema e alla fotografia e ripresi a scrivere, in spagnolo; subito mi accorsi, però, dell’impossibilità di vivere e pensare in una lingua e scrivere nella sua sorella: se avessi scritto in tedesco, forse, la difficoltà non sarebbe esistita. Avevo iniziato a studiare italiano da adolescente, lo parlavo e lo leggevo perfettamente e, se non fosse stato per le doppie spesso e volentieri messe a sproposito, avrei anche potuto ritenere di saper scrivere, ma fare letteratura, naturalmente, era tutta un’altra storia. M’impegnai a perfezionare l’italiano: se mia sentivo questa terra dove non ero nata, mia doveva essere la sua lingua. Fu un periodo molto intenso, di lunghe e diversificate letture: letteratura, storia, antropologia, psicologia, storia delle religioni. Seguii un corso di latino presso l’Università Gregoriana di Roma e di francese presso l’Alliance Francaise. Mi preparavo, ma dubitavo di avere capacità sufficiente per affrontare con serietà la scrittura. Diventare scrittrice mi appariva un traguardo troppo in alto per le mie forze. Un Natale ricevetti in regalo I miti di creazione di Marie Louise Von Franz, quel libro mi diede la spinta, il coraggio che mi mancava e nacque il mio primo romanzo: I quattro lati del cerchio che, una volta finito, giudicai troppo sperimentale e saggiamente lasciai nel cassetto. Cominciai a lavorare a Il cammino e il pellegrino e per cinque anni frugai tra le pieghe della storia fiorentina della fine del XIII secolo per costruire la quotidianità dei miei personaggi. Il nuovo romanzo ebbe lettori di eccezione come Pietro Citati e Daniel Chavarria che lo apprezzarono e mi incoraggiarono. Fece parte della cinquina del Premio all’inedito Palazzo al Bosco e Giovanna Querci Favini, promotrice del premio, tentò senza successo di farlo pubblicare. Finito il libro, gli studi sul medioevo italiano continuarono. Intanto con alcuni amici ho fondato l’Associazione Culturale Clara Maffei di cui sono presidente. A settembre del 2009 ho finito il mio terzo romanzo I panni del saracino. All’edizione di quell’anno di Più libri più liberi ho contattato Anna Grazia D’Oria presso lo stand della Pietro Manni editore. Era la prima volta che mi rivolgevo a una casa editrice indipendente; la mia intenzione era chiedere di visionare l’ultimo romanzo. Sul momento, tuttavia, ho cambiato idea e le ho parlato di Il cammino e il pellegrino; è stato uno slancio di puro istinto. A giugno mi è arrivata la proposta di contratto che ho accettato. I panni del saracino attende fiducioso il suo turno; intanto lavoro a un nuovo romanzo e pubblico articoli e piccoli saggi di storia medievale sul sito Clara Maffei.

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