Ieri sera, nel corso della discussione sulle mozioni concernenti l’impegno italiano in Libia, l'on. Franco Narducci (PD) è intervenuto per illustrare la mozione del PD ed ha sottolineato l’importanza dell’azione umanitaria italiana in ambito Onu a tutela dei civili libici.
Narducci ha sostenuto che gli “interessi economici dell'Italia in Libia non possono essere disgiunti dal nostro patrimonio di valori democratici e al nostro ruolo storico nella tutela dei diritti umani. Essi, infatti, costituiscono la necessaria premessa per dare fondamenta solide e durature nel tempo a qualsiasi forma di partenariato” ed ha concluso dicendo “Vogliamo una Libia amica, libera e rispettosa della dignità della persona, per questo ci mettiamo in gioco, per costruire un futuro di pace e di stabilità nel Mediterraneo”.
Di seguito il testo integrale dell’intervento:
“Signor Presidente, onorevoli colleghi, la mozione del Partito Democratico ha un unico e solo scopo, sottolineare la necessità di un atteggiamento responsabile di fronte agli impegni assunti sul piano internazionale, nel rispetto della risoluzione 1973 dell'ONU, della collocazione atlantica dell'Italia, e di fronte alla necessità di agire per proteggere i civili. Un atteggiamento al quale ci ha richiamato anche il Capo dello Stato evidenziando così il ruolo importante che l'Italia ha sempre avuto per le operazioni di pace nel mondo a tutela dei diritti umani.
La Risoluzione 1973 arriva dopo la Risoluzione 1970, disattesa pienamente da Gheddafi che si è rifiutato di dare esecuzione alle disposizioni in essa contenute e in particolare a porre immediatamente fine alla violenza e a rispettare i diritti umani e il diritto internazionale umanitario. Con la seconda risoluzione l'ONU ha deciso conseguenzialmente di autorizzare l'uso della forza militare con l'obiettivo primario di dare protezione alla popolazione.
In un passato nemmeno tanto lontano, anche sul territorio europeo – nella ex Jugoslavia e nel Kosovo – vi sono stati interventi armati tesi alla protezione delle vittime civili e ad arginare la tragedia che trafisse un intero popolo.
Signor Ministro, si è parlato molto e molti paragoni sono stati fatti con la Germania. All'indomani della decisione di disimpegno del Governo tedesco, l’Handelsblatt titolò «La signora Merkel ha dimenticato la lezione di Bismark». Nelle ultime settimane vi è stato un ampio dibattito nel Bundestag, ma alla fine è prevalsa la linea di coerenza e non del balletto delle decisioni e delle linee politiche fluttuanti.
In Italia, invece, anche nei momenti in cui è necessario abbandonare le divisioni di parte per essere uniti nell'azione internazionale di tutela dei più deboli e per riaffermare il ruolo dell'Italia nello scenario mediterraneo e globale, vi è qualche parte politica che si sottrae all'impegno, che recita fuori dal coro per puro calcolo elettorale, vista l'imminenza delle elezioni amministrative. La prossima tornata elettorale in Italia sarà decisiva per le sorti della maggioranza che regge il governo, lo ha ribadito ripetutamente la ditta B&B. Così, in Italia, la politica estera è sempre meno estera e sempre più domestica, perde la sua capacità di visione prospettica e assume i ritmi e le improvvisazioni del fare quotidiano, il contrario di quanto ci sarebbe richiesto.
Gli osservatori internazionali – giornalisti e diplomatici – che seguono le nostre vicende sono abituati ai balletti ma quando si tratta di politica estera, i riflessi delle nostre decisioni si riverberano maggiormente sullo scacchiere internazionale, per cui risulta meno etico subordinarle ai giochi politici interni. E allora che senso ha mantenere posizioni attendiste, contraddittorie, equivoche, sull'intervento in Libia, con un occhio all'appuntamento elettorale a Milano piuttosto che a Napoli? Oggi il Governo non bombarda, domani sì, ma vediamo meglio se ci può essere una via di mezzo… magari dopo le elezioni. Sinceramente una politica estera irriconoscibile e questa mozione ne è la prova lampante, tanto da suscitare il disappunto della NATO. Siamo veramente alla frutta e non per colpa sua, signor Ministro, che la politica estera sa come si fa.
Siamo tutti per la pace, e siamo convinti della bontà del richiamo alla pace più volte espresso dalla Chiesa cattolica, ma proprio per garantire quella pace che tutti desideriamo è stato necessario un intervento armato in difesa dei civili, cosa che sta sicuramente a cuore anche alla Chiesa cattolica stessa. Non a caso il 7 agosto 1992, il Cardinale Angelo Sodano, Segretario dello Stato del Vaticano affermava a Castel Gandolfo: «Gli Stati europei e le Nazioni Unite hanno il dovere e il diritto di ingerenza per disarmare uno che vuole uccidere. Non si tratta di favorire la guerra ma di impedirla». Se non si fa niente per fermare l'aggressore si rischia di diventare suo complice tanto più che potremmo affermare che l'ingerenza della Comunità internazionale nelle situazioni di crisi interne agli Stati diventa «un diritto in favore dell'umanità».
Siamo convinti che la crisi debba volgere verso soluzioni più ragionevoli che portano verso la deposizione delle armi arrivando a una riconciliazione nazionale, ma siamo anche convinti che questo non sarà possibile se a governare sarà ancora Gheddafi.
Forse in Libia il vento del cambiamento contro l'ancien regime sanguinario e senza scrupoli è arrivato troppo presto, trovandoci impreparati, lasciandoci un po' confusi di fronte alle novità rilevanti che si annunciavano in un Paese dal quale importiamo una parte consistente di greggio e gas naturale e dove operano molte imprese italiane. Ma l'onda della rivolta contro l'oppressione si è unita ad altri fattori ed ha reso fragile anche il sistema di potere di Gheddafi, in tal senso sono stati determinanti il tentativo interno di colpo di stato che stava già maturando e il tentativo inglese e francese di gestirlo e dominarlo. Un mix che ha portato il Colonnello, nel mirino della Comunità internazionale legittimando, quindi, l'intervento armato come risposta all'emergenza umanitaria.
L'impegno della NATO e dell'ONU è sopraggiunto una volta esaurite tutte le possibilità che il diritto internazionale prevede e quindi rientrano sempre nel quadro generale delle norme che la comunità internazionale si è data, norme che in caso di violazioni gravi e diffuse dei diritti umani fondamentali, che rappresentano una minaccia vera per la pace – come è evidente in Libia – prevedono un intervento della Comunità internazionale a scopo umanitario.
Ora, nel caso della Libia, siamo di fronte ad un vero e proprio dittatore che psicologicamente s'identifica con il popolo al quale è inscindibilmente e visceralmente legato, popolo che non è inteso come insieme di persone, ma come un unico concetto trascendente che appunto si riassume nella figura del dittatore. Egli quindi è il popolo e il suo volere è quello del popolo. Nella concezione del dittatore se stesso e il popolo coincidono perfettamente. Oggi ci troviamo di fronte a degli oppositori che conseguenzialmente sono considerati l'altro da Gheddafi e quindi il nemico da abbattere. Perciò non solo va distrutto, ma negato, come se non fosse mai esistito, come se fosse un temibile tumore maligno che distrugge quello che c'è di buono, senza quindi pensare che dei cittadini possano avere opinioni diverse ed organizzarsi per affermarle. In questa concezione l'opposizione a Gheddafi porta all'escalation, a una tragica situazione di fronte alla quale si trovano i ribelli che giustamente dicono di essere «We Are Libyan Freedom Fighters Not Rebels» (noi siamo combattenti libici per la libertà e non ribelli) e non si identificano a mo' di corpo mistico con il dittatore Gheddafi. Non sono ribelli, sono in cerca di un futuro migliore per i propri figli, come Naima Rifi, leader delle Amazzoni di Gheddafi, che rifiutando di sparare sulla folla è passata dall'altra parte e in una dichiarazione a El País ha detto: «Credo che se la rivoluzione avrà successo, avremo una ridistribuzione più equa della ricchezza, un'educazione di qualità per i nostri figli, più libertà e lavoro per noi e per le generazioni future. Mia nipote potrà viaggiare, conoscere altri Paesi».
È questa, signor Presidente, la tensione morale che siamo chiamati a sostenere ed è questo quell'anelito alla libertà e alla giustizia che non può rimanere inascoltato tra i popoli liberi e ci deve spingere ad affrontare l'emergenza umanitaria conseguente alla situazione di «guerra civile» in atto. Una guerra civile facilitata da una frantumazione dello Stato, già posta in essere dallo stesso Gheddafi nel corso delle ultime quattro decadi.
Oggi l'Italia non riconosce più il regime di Gheddafi mentre ha riconosciuto gli insorti e il Ministro Frattini ha ricevuto il 19 aprile il Presidente del Consiglio nazionale transitorio di Bengasi, Mustafa Jalil; e quindi è chiamata a soccorrere i ribelli nell'ambito delle possibilità dell'Italia e di concerto con gli alleati. L'Italia ha già messo a disposizione della coalizione le sue basi e i suoi aerei con i relativi piloti; e ha iniziato a fronteggiare l'impatto che le migrazioni forzate che si dirigono vero le sponde meridionali del nostro Paese e in misura di gran lunga maggiore verso il confine tunisino.
Siamo consapevoli che anche per queste ragioni occorre essere presenti in quell'area, non solo con lo strumento militare ma soprattutto con adeguati successivi interventi di cooperazione che concretamente possano portare a uno sviluppo capace di dare risposte alla richiesta di giustizia e di dignità che arriva dalla popolazione oppressa. Ma oggi è urgente rispondere al grido di aiuto dei ribelli che come sappiamo, fino a questo momento, stanno richiedendo copertura militare per i civili, istruttori e attacchi mirati, com'è chiaro dagli ultimi messaggi che hanno inviato.
L'impegno del nostro Paese all'interno della NATO non costringe l'Italia, sulla base dell'articolo 5 del Trattato, a intervenire obbligatoriamente con le sue Forze armate . Stando all'articolo del Trattato, infatti, ciascuno degli alleati, in caso di attacco non provocato ma, per il diritto internazionale ormai consolidato, anche in caso d'intervento umanitario, innovato da Wojtyla, assisterà la Parte o le Parti, attaccate e, in extenso, le Nazioni Unite o le parti che abbisognino d'intervento umanitario, intraprendendo, individualmente e di concerto con le altre Parti, «nell'esercizio del diritto di autodifesa individuale o collettiva, riconosciuta dall'articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, quell'azione che riterrà necessaria, incluso l'uso della forza armata, per ripristinare e mantenere la sicurezza dell'area nord-Atlantica».
Detto in altri termini, se è chiaro che stando alla Risoluzione 1973 la NATO può intervenire militarmente, non necessariamente tutti all'interno della NATO devono intervenire militarmente. Se l'Italia ha fatto questa scelta, come noi riteniamo giusto sia, ebbene si addossi questa responsabilità, non sollecitata da alcuno, ma che il Governo si è liberamente assunto, senza se e senza ma.
Il Governo italiano ha fatto una pessima figura a porre tanti «se» e tanti «ma» – come è emerso dalle dichiarazioni di parti di questa maggioranza – all'Alleanza Atlantica, che non ha sollecitato il concorso armato italiano. E male fa ad imporre dei termini per la fine delle operazioni che possono essere decisi soltanto da circostanze che né l'Italia né la NATO controllano.
È ora che questa maggioranza abbandoni il cerchiobottismo e dica chiaramente cosa vuole fare in politica estera senza rimangiarsi la parola «data»; il problema dell'intervento armato della nostra aviazione è tutto interno alla maggioranza, ed è bene che essa se lo risolva al suo interno. Vorrei richiamare, a tal proposito, le parole pronunciate dal Presidente della Repubblica il 26 aprile scorso nell'incontro con gli esponenti delle Associazioni combattentistiche e partigiane e le Associazioni d'Arma: «Oggi ci interroghiamo, in Europa e in tutto l'Occidente, sulla possibilità di rivoluzioni o evoluzioni democratiche nel mondo arabo, fatto senza precedenti e carico di potenzialità straordinarie. E le previsioni non sono facili; né è semplice il compito che può spettare a paesi come il nostro. Non potevamo restare indifferenti alla sanguinaria reazione del colonnello Gheddafi in Libia: di qui l'adesione dell'Italia al giudizio e alle indicazioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e quindi al piano d'interventi della coalizione guidata dalla NATO».
La ricchezza delle risorse naturali libiche, con il ruolo assunto a livello internazionale in campo energetico, ha portato l'occidente a prese di posizioni deboli nei confronti del dittatore di Tripoli, ora è il tempo di riscattarsi; del resto i consistenti interessi economici dell'Italia in Libia non possono essere disgiunti dal nostro patrimonio di valori democratici e al nostro ruolo storico nella tutela dei diritti umani. Essi, infatti, costituiscono la necessaria premessa per dare fondamenta solide e durature nel tempo a qualsiasi forma di partenariato. Vogliamo una Libia amica, libera e rispettosa della dignità della persona, per questo ci mettiamo in gioco, per costruire un futuro di pace e di stabilità nel Mediterraneo.”
Roma,4 maggio 2011