Lampedusa: I fili spinati della nostra mediocritàNon mi ero ancora ripreso dal disgustoso spettacolo interpretato a Lampedusa dal nostro cabarettista nazionale, attore protagonista (senza altri interpreti), quando, circa 48 ore dopo, lo stesso si è esibito in una ulteriore performance. Una barzelletta, durata un tempo infinito, imposta a un gruppo di suoi ospiti in una delle sue residenze imperiali, amministratori della Campania, i quali, a dire il vero, benché in situazione di costrizione psicologica, non sembravano dare eccessivi segni di apprezzamento: sì, ci sono state risatine, nel momento in cui hanno risuonato nella sala parole come “culo” e “fica” e un mediocre applauso ha coronato l’esibizione. Beh, devo confessare che la barzelletta, non narrata, ma recitata, con tanto di voci diversificate, con la mimica ritenuta adatta (pietosa) dal presidente del Consiglio era semplicemente schifosa: perfetta espressione del livello intellettuale e morale di chi la raccontava. Perché lo fa? – si domanda qualcuno: per sembrare un italiano medio, per mimetizzarsi nel popolo del bar Sport, nella gente di strada, nella folla anonima dei frequentatori degli stadi, urlanti, o dei clienti delle puttane nelle periferie delle città. Un puttaniere, che ama parlare di calcio, della propria ricchezza personale, delle sue conquiste sessuali (a pagamento), e, appunto, coglie ogni occasione, comprese quelle meno adatte, per sciorinare il suo grottesco repertorio di spiritosaggini.
Ogni volta, ogni santa volta, in cui, leggendo un resoconto giornalistico, o ammirando, esterrefatto, in audio o in video, la performance del cavaliere, travolto dallo schifo, mi chiedo come mai non vi sia uno tra gli astanti che si alzi e dica (almeno): ma lo sa che le sue barzellette non fanno ridere? Non chiedo di più, onde evitare la denuncia da parte dello stuolo di servitori avvocati o i maltrattamenti da parte di qualcuno degli ernegumeni che accompagnano il capo, a cominciare dall’orrido La Russa, che sempre più appare uno squadrista del 1921-22, risvegliatosi dopo essere stato ibernato per decenni. Mi accontenterei che qualcuno, cortesemente, invitasse il premier a smettere di cantare, perché fa pena, di raccontare barzellette, perché non fanno ridere, e, soprattutto, di sghignazzare a sua volta, perché non c’è nulla – ma proprio nulla – da sghignazzare.
E ogni volta, davanti a episodi come questi ultimi, o i tanti pregressi (per esempio, la lunga telefonata al cellulare – a quanto si dice, per combinare uno dei suoi festini ad Arcore – appena giunto, in ritardo, a un vertice europeo, mentre gli altri presidenti lo attendono, con la Merkel, padrona di casa, impaziente ed esterrefatta), l’indomani mi aspetto ingenuamente che tutte le prime pagine dei quotidiani siano inondate da una rivolta morale contro l’uomo che sta cancellando sistematicamente ogni residua dignità del Paese, mi aspetto di leggere parole di fuoco, di sentire invettive appassionate, di assistere a un coro: “Vattene”.
Invece così non è. E anche i giornali di area progressista, la buttano sul ridere, con qualche indulgenza, per l’arzillo vecchietto, anche quando condannino le implicazioni politiche dei suoi poco edificanti comportamenti. Ma non si tratta di una questione di stile. Si sbaglia a considerarla tale. Il presidente-cabarettista di quarta mano, il barzellettiere-presidente, esprime in questi comportamenti una concezione patrimoniale, patriarcale, oltre che perlopiù sessista e machista della cosa pubblica, che gestisce come un’area privata. È il capo che vuole far ridere i suoi sottoposti. È il datore di lavoro che ritiene che in cambio del suo denaro, le persone, da lui comprate anima e corpo, debbano sorridere a comando, denudarsi o travestirsi a comando, “lasciarsi fare” dal padrone, o dai suoi commensali, a comando (vedansi verbali delle intercettazioni delle sue amichette, schifate, ma disponibili: pecunia non olet), e così via. Siamo nel clima torbido e osceno della fine dell’Impero.
Del resto, il cavaliere non si limita a farsi grasse risate mentre impone agli astanti i suoi raccontini osceni, o semplicemente scemi (barzellette vecchissime, perlopiù, che egli propone come fresche di giornata) come i bambini che si divertono a pronunciare le “parole vietate”: questa, a prescindere dalla mia idiosincrasia per barzellette e barzellettieri, è ancora la parte meno grave, sia pure intollerabilmente volgare, tanto più considerando il ruolo del personaggio; ma che a Lampedusa, là dove si consumava la tragedia, infinita, di migliaia di poveri cristi e povere madonne e poveri bambin Gesù, senza patria, senza lavoro, senza speranza ragionevole di vita, e davanti al disagio, alla inquietudine più che comprensibile dei residenti, costui abbia indossato la sua miglior faccia tosta promettendo, assicurando, come per Napoli, che entro una manciata di ore la situazione sarebbe stata risolta, mentre condiva il suo racconto di frizzi e lazzi, e si sia spinto a dichiararsi “lampedusano”, in quanto freschissimo acquirente di “una casa bellissima” (crepate d’invidia, miserabili!), reperita, e, ipso facto, comprata su Internet, questo è stato, davvero, il momento forse più alto dello scandalo che l’esistenza stessa di quest’individuo rappresenta. Intanto, a pochi metri dal podio su cui, attorniato da suoi compari ridenti, davanti a una piccola folla plaudente, da cui erano stati previamente allontanati i potenziali contestatori, si svolgevano gli atti quotidiani della tragedia; dall’affondamento del solito barcone, con i soliti morti senza nome, fino al triste spettacolo di quelle “non persone” private di quel che rimaneva della loro dignità, criminalizzate in partenza, con la sottrazione delle cinture dei pantaloni, delle stringhe delle scarpe, con l’incombente minaccia dell’espulsione. Tornate nell’inferno da cui venite, brutti animali.
E il capo, il piduista, il figlio politico di Craxi, l’amico di Gheddafi, l’amico di Putin, l’amico di Lukascenko, il socio di Dell’Utri, il datore di lavoro dello stalliere mafioso Mangano, l’amico di tanti “amici”, il “benefattore” di “povere” ragazze “bisognose”, se la ride. E conta le sue case, e compra deputati, e inserisce nuove escort nel suo harem, procaci fanciulle che gli giurano amore eterno, mentre “papi” mette mano al libretto degli assegni. Che pena.
La tragedia di un uomo ridicolo, potremmo concludere. Se non fosse che è la tragedia di un popolo, di una nazione, di un’epoca storica. Da cui dobbiamo infine uscire. È ora. Se non lo si può fare in Parlamento, lo si faccia in Piazza. Si cacci il tiranno, al più presto, e si cominci a lavorare per affrontare la dura, lunga, difficile purificazione dell’anima della nazione da questo virus, che è il berlusconismo. Ogni giorno che passa, è un’altra dose di veleno.
Angelo d'Orsi