Avevamo attraversato la piazza del 13 febbraio, la manifestazione delle donne, il dibattito che aveva stimolato e le distanze tra le voci intervenute. Ci eravamo guardati negli occhi, mentre la piazza era invasa dalla voce di Patti Smith che ci ricordava “People have the power”, e ci eravamo detti: ora tocca a noi. Il giorno dopo in quella libreria le riflessioni sulla precarietà esistenziale, sulle difficoltà di generazioni che rischiano di saltare il turno nell’appuntamento con stabilità, serenità, vecchiaia dignitosa, scelte consapevoli, ci hanno riportato sul terreno dello scontro. Uno scontro con noi stessi, con le nostre piccole vite frammentate e individualiste, con gli altri, con i nostri predecessori, con la nostra classe dirigente, con i nostri genitori.
Abbiamo ragionato su un diverso modello di sviluppo, ancora possibile, ma ad oggi rivoluzionario, in un paese che ci consegna un debito pubblico crescente e garanzie zero, tutele zero, diritti zero. Siamo a mani nude davanti alla prova del fuoco dell’ingresso in un’ adultità che continuiamo a non capire. Ma sappiamo che dobbiamo ripartire da un nuovo patto, non solo sociale, ma tra generazioni e soprattutto tra singoli, convinti che il “si salvi chi può” ha già fatto il suo tempo, che “da solo non ti salvi”, che fare tutti un passo indietro rispetto alle nostre singole possibilità di “cavarcela”, possa essere garanzia della vera riconversione.
Non siamo una categoria sociale, non siamo una generazione ma più di una oramai. Siamo le donne delle dimissioni in bianco e dei contratti in nero, siamo precari di ogni genere, foggia e tipo, siamo migranti dal Sud al Nord di un’Italia che vorrebbero divisa, dall’Italia all’Europa, dall’Africa all’Italia, che ci sfrutta e ci respinge. Siamo quelli che covano dentro una “rabbia giovane”, quelli stufi di sentirsi dipingere come “senza voce”, mentre non ne abbiamo quasi più per lanciare questo grido, solo dobbiamo farlo diventare un coro. Siamo consapevoli che non è facile.
Dopo quella sera in libreria ci siamo incontrati per scrivere un appello, rendendoci conto anche delle nostre differenze, abbiamo cercato di usare parole chiare per tutti, anche se insufficienti per ognuno. Il compromesso non è al ribasso, è un terreno comune, è un passo indietro alla ricerca del balzo in avanti. È difficile perché ci hanno fatto crescere lontani, privi di luoghi reali di condivisione, di socialità, di politica. Ci hanno insegnato che la politica è lontana dalla vita, mentre siamo convinti che essa stessa sia vita. Vogliamo raccontarci e non essere raccontati, come scriviamo nell’appello (http://www.ilnostrotempoeadesso.it).
E’ la pretesa di essere artefici di un discorso pubblico che non ci appartiene. I ministri del nostro governo ci ritraggono come bamboccioni, privi di umiltà, come se le ambizioni fossero un delitto e non la molla della scala sociale e della crescita collettiva, come se non fossimo quelli dei mille lavoretti sottopagati o non-pagati. Come se volersi occupare di cultura fosse una scelta presuntuosa, come se essere le prime generazioni dal dopoguerra che hanno la prospettiva di star peggio dei propri genitori fosse una condizione da accettare, con umiltà!
Non possiamo rinnegare chi ha sostituito il welfare che non c’è, dandoci le possibilità che lo Stato ci ha progressivamente sottratto, ma non possiamo pensare che sia giusto. Oltre ad essere fortemente iniquo (non possiamo ancora scegliere in quale famiglia nascere), crea un meccanismo paradossale, per cui il familismo e il clientelismo che tanto vituperiamo diventano la nostra unica ancora di salvezza. Non possiamo immaginare di ricevere doni, non se questi sono frutto di un ricatto.
Vogliamo scegliere, vivere, dare voce alle speranze negate che rischiano di trasformarsi in conflitti. E non possiamo più rimandare, accettare i discorsi di chi, dall’alto di una posizione raggiunta tende a conservare. Trovare l’alternativa è possibile, ma bisogna rischiare ed essere pronti ad assumersi delle responsabilità. Presto sarà anche colpa nostra. Il nostro tempo è adesso, costruiamo insieme un percorso che ci porti tutte e tutti in piazza il 9 aprile.
Maria Pia Pizzolante