di Vittorio Lussana
In questi giorni si festeggia il 150esimo anniversario dell’unità d’Italia. Riteniamo perciò opportuno dedicare questa ricorrenza ai caduti italiani nella campagna di Russia, ricordando la pagina forse più dolorosa della nostra Storia anche al fine di comprendere dove, come e quando è stato infranto ogni spirito di servizio nei confronti della nostra nazione.
UNA DECISIONE INIQUA
Alla fine di giugno del 1941, le armate tedesche del Terzo Reich decisero, in totale violazione degli accordi di non belligeranza – sottoscritto nel 1918 a Brest Litovsk – e di non aggressione – firmato a Mosca nel 1939 – di invadere l’Unione Sovietica. L’offensiva venne lanciata verso tre direzioni: a nord, il gruppo di armate del maresciallo von Leeb, al comando di 29 divisioni, di cui tre corazzate, doveva muoversi dalla Prussia orientale, superare gli Stati baltici e puntare su Leningrado; al centro, il gruppo di von Bock – 50 divisioni, di cui nove corazzate – partendo dalla Polonia doveva aggirare le paludi del Pripjet e puntare su Minsk e poi su Mosca; a sud, invece, le armate di von Rundstedt – 40 divisioni, di cui cinque corazzate – dovevano invadere l’Ucraina e il bacino del Donez, per poi puntare verso il Caucaso e i suoi giacimenti petroliferi. L’obiettivo dell’operazione ‘Barbarossa’ prevedeva la conquista di tutta la Russia europea, da Arcangelo, sul mar Bianco, sino ad Astrakan, sul mar Caspio: in pratica, si trattava di una vera e propria crociata contro il bolscevismo, a cui parteciparono tutte le nazioni che avevano aderito al patto d’acciaio, prima fra tutte l’Italia. In fianco alle due ali del fronte d’attacco tedesco erano state posizionate le forze ‘satelliti’ della Germania: all’estremo nord, 16 divisioni finlandesi agli ordini del maresciallo Mannerheim, rinforzate da cinque divisioni tedesche; all’estremo sud, quelle rumene, ungheresi, slovacche e italiane. La Romania partecipava con la terza e la quarta armata, per un totale di dodici divisioni di fanteria e dieci brigate di truppe da montagna; l’Ungheria, con un suo corpo ‘celere’ costituito da 2 brigate motorizzate e da una corazzata, per un totale di circa 40 mila uomini; la Slovacchia, con una brigata ‘leggera’ di circa 3 mila e 500 uomini e un corpo d’armata composto da due divisioni di fanteria (circa 40 mila uomini). I finlandesi volevano riprendersi i territori perduti nel 1939 dopo l’aggressione sovietica; i rumeni rivendicavano le regioni della Bessarabia e della Bucovina, invase dall’Urss nel giugno del 1940; gli ungheresi volevano espandersi a est e gli slovacchi combattevano per mantenere la propria indipendenza nazionale, che solo la vittoria delle forze dell’Asse avrebbe potuto garantire. Noi italiani, in tutto questo scenario c’entravamo poco o nulla. Tuttavia, subito dopo la dichiarazione di guerra all’Urss del 23 giugno 1941, Benito Mussolini si era affrettato a proporre a Hitler l’invio sul fronte russo di un nostro corpo di spedizione. Ciò non era dettato da mere motivazioni di prestigio internazionale, bensì dall’esigenza di dover proseguire la collaborazione militare tra Italia e Germania su tutti i fronti, dopo che l’intervento tedesco nei Balcani aveva evitato alla nostra fanteria un’umiliante sconfitta contro la Grecia. Hitler rispose il 30 giugno: “Accetto con gratitudine la vostra offerta generosa, Duce, di inviare un corpo militare italiano sul fronte orientale”.
IL DRAMMA ITALIANO
Dotati di scarsissimi mezzi (solamente 55 carri leggeri e 380 pezzi anticarro in grado di scalfire appena le pesanti corazze dei carri armati sovietici), del tutto impreparati e malamente equipaggiati, i soldati italiani, impegnati durante la seconda guerra mondiale lungo il fiume Don sin dall’autunno del 1941, subirono lo sfondamento del loro fronte tra il dicembre ‘42 e il gennaio ’43. Nella ritirata che ne seguì, durante la quale i tedeschi si rifiutarono di fornire loro i mezzi di trasporto per porre in salvo i nostri soldati, gli italiani vennero decimati, oltre che dai combattimenti, soprattutto dal freddo intensissimo dell’inverno russo. Circa 85 mila soldati non fecero mai più ritorno e più di 27 mila furono i morti congelati. I due aspetti principali del dramma italiano che avvenne sul fronte orientale furono: 1) la mancanza di automezzi, che costrinse la maggior parte delle nostre truppe a ripiegare a piedi, sostenendo continui combattimenti contro i carri armati russi; 2) le bande partigiane russe, che approfittando della situazione attaccarono frequentemente i nostri reparti, ormai isolati, in collaborazione con gli sciatori dell’esercito regolare sovietico. La tremenda offensiva lanciata nel 1941 si concluse, dunque, con una durissima sconfitta delle armate tedesche, ungheresi, romene e italiane. Il Caucaso, che era stato conquistato a fatica nell’estate del 1942, venne definitivamente perduto. E cominciarono così le terribili marce a ritroso dei nostri soldati in mezzo alla steppa infinita, in cui il freddo divenne il più inesorabile dei nemici. L’azione dei russi rientrava nella grande battaglia di annientamento iniziata a Stalingrado, che già aveva travolto numerose divisioni germaniche e quelle romene. I soldati italiani, che erano stati costretti a tenere un tratto di linea assolutamente sproporzionato rispetto ai loro mezzi, resistettero coraggiosamente per molti giorni, ma alla fine, esausti e completamente abbandonati dai nazisti, senza più rinforzi e privi di munizioni, dovettero iniziare un impossibile ripiegamento, passato alla Storia come ‘la marcia della morte’.
LA MARCIA DELLA MORTE
Il 10 dicembre 1942, ingenti forze sovietiche attaccarono le nove divisioni dell’Armir schierate lungo il Don. L’intero fronte, in realtà, era già in crisi da giorni: la 6a Armata tedesca era stata accerchiata a Stalingrado e si stava avviando verso il suo tragico destino e la 4a armata del Terzo Reich stava ripiegando in assoluto disordine verso Rostov. Le truppe che nell’estate precedente si erano spinte fino al Caucaso dovettero ritirarsi rapidamente verso Kersc, per cercare una via di scampo in Crimea, mentre la 3a armata romena, che si trovava sul fianco destro dell’Armir, venne scompaginata da una violenta offensiva e letteralmente annientata. Dunque, la situazione tattica dell’Armir, già prima dell’attacco, era tutt’altro che rosea: quanto accaduto ai romeni minacciava la ‘Sforzesca’, la ‘Celere’ e la ‘Torino’ di avvolgimento da est, mentre anche una singola penetrazione nel settore tenuto dalla ‘Ravenna’ e dalla ‘Cosseria’ sarebbe bastato a chiudere tali divisioni, insieme alla ‘Pasubio’, in una morsa senza scampo. Data la situazione strategica e la conformazione del terreno questa era, in effetti, una mossa naturale per i sovietici. E infatti, la manovra venne eseguita puntualmente non appena i russi, che si erano accuratamente preparati all’offensiva, disposero di quella superiorità di mezzi e di uomini da essi ritenuta indispensabile. Il primo colpo fu portato al nostro 2° corpo d’armata, il più debole, il più esposto, quello che risentiva maggiormente della mancanza di riserve e che presidiava, purtroppo, il settore più importante del fronte. Fu una settimana di lotta durissima, sostenuta con orgoglio eroico dalle divisioni ‘Ravenna’ e ‘Cometa’, le quali sacrificarono una gran parte dei loro effettivi per contrastare il passo ai sovietici e mantenere, secondo gli ordini ricevuti, le posizioni lungo il corso del fiume. Ma la superiorità dei russi era decisamente schiacciante (79 battaglioni contro 19) ed ebbe ragione del disperato valore delle truppe italiane. Il battaglione ‘Cosseria’ e il ‘Ravenna’ vennero letteralmente spazzati via. E i superstiti dovettero iniziare un drammatico ripiegamento a piedi fra il dilagare dei carri armati sovietici, affondando i passi dentro metri e metri di neve, a temperature assai al di sotto dello zero. Quasi nello stesso momento crollò anche tutta l’ala destra del fronte, ove la ‘Sforzesca’, rimasta senza collegamenti, dovette sfuggire all’accerchiamento con una rapida ritirata. Il fronte italiano si mise dunque in movimento, ma non era ancora in ‘rotta’: i nostri reparti cercarono di mantenere la propria efficienza bellica, gli organici la loro combattività ripiegando combattendo e, spesso, contrattaccando. Solo dopo, quando lo sfinimento per le interminabili marce, il gelo, le bufere di neve, gli attacchi sui fianchi delle unità carriste e le continue incursioni fiaccarono i nostri soldati, vennero i giorni del disordine, dello scoramento, dell’ansia di portarsi in salvo. Bisogna dire, peraltro, che tutto ciò fu conseguenza di clamorosi errori di valutazione degli alti comandi nazisti dai quali l’Armir dipendeva, poiché invece di affidare le sorti dell’armata italiana a una ‘difesa manovrata’ decisero di ordinare ai nostri soldati una resistenza a oltranza. Così, le nostre truppe sul Don s’erano ritrovate isolate e senza alcuna speranza. E cominciarono a ripiegare in base a ordini tardivi e contradditori, cioè quando ormai era troppo tardi e i sovietici erano penetrati nelle retrovie per creare ‘sacche’. Quella ritirata fu un dramma inenarrabile, la pagina peggiore dei nostri 150 anni di Storia presa nel suo complesso. L’errore di ordinare la resistenza a oltranza fu purtroppo ripetuto anche nei confronti del corpo d’armata degli alpini che, al contrario del 2°, del 35° e del 29° reggimento, erano riusciti a ‘reggere’ gli attacchi sferrati dai sovietici fra il 10 e il 18 dicembre 1942 ed erano rimasti sulla linea del Don in collegamento con l’armata ungherese e, a sud, con alcune unità germaniche, corse a tamponare la ‘falla’ apertasi con la distruzione della ‘Cosseria’. Queste nostre truppe da montagna erano ancora sulle proprie posizioni a metà di gennaio, quando tutto il fronte era già un caos di reparti in ritirata. Solo quando gli ungheresi, vedendo la malasorte, cominciarono a portarsi su linee più arretrate e quando, da sud, videro irrompere sulle loro stesse retrovie i carri armati sovietici, i nostri alpini iniziarono il terribile ripiegamento. Ma anche in questo caso era ormai troppo tardi: la manovra di sganciamento, che ancora qualche giorno prima sarebbe stata possibile senza eccessive perdite, divenne una vera e propria tragedia collettiva, resa ancor più fatale dalle continue bufere di neve che imperversavano nella steppa. Della ‘Julia’, della ‘Cuneense’, della ‘Tridentina’ e della divisione di fanteria ‘Vicenza’, giunte in prima linea per dare man forte agli alpini, dopo un mese di ripiegamento rimasero poche migliaia di uomini esausti. Tutti gli altri erano caduti combattendo nel tentativo di crearsi un varco o, rimasti senza munizioni e senza viveri, avevano dovuto arrendersi ai sovietici. Questa, in estrema sintesi, fu la drammatica tragedia della spedizione militare italiana in Russia, in cui le nostre Forze Armate si ritrovarono vittime di errori altrui e di un’inferiorità numerica e di armamenti che s’era andata aggravando sempre di più con la crisi tedesca e l’aumento delle forze sovietiche. Ma quella della ritirata in Russia non è una pagina ingloriosa: nell’ora sfortunata rifulsero le virtù più eroiche degli italiani e centinaia di episodi hanno dimostrato che, anche nelle situazioni più avverse, il nostro popolo è capace di tener fede a un giuramento e di sacrificarsi per l’onore della nostra bandiera.
2 MILA CHILOMETRI DI NEVE
“C’incolonniamo con la Cct e l’Edolo e muoviamo, soli, sulla Arincastrasse. Il freddo è sotto i 30 gradi. Corre voce che presto incontreremo un caposaldo tedesco. Altri dicono che andiamo avanti per combattere. La neve sembra sabbia, non si cammina, si corre. Il terreno è a saliscendi, tutto uguale, spaventosamente uguale. Siamo piegati in due: con i fagotti di coperte attorno ai piedi è come se incontrassimo un ostacolo ad ogni passo. Per un po’ cammino al fianco di Grandi, con dietro la compagnia. Perdiamo terreno, il reparto che ci precede si allontana. Di corsa lo raggiungiamo. Non ne posso più. Mi trascino per un’ora, poi salgo sulla slitta della 109, in coda al reparto. Ma sulla slitta gelo, il congelamento parte dai piedi e viene su. Riprendo a camminare. Ormai la stanchezza mi piega: non guardo più avanti, guardo i piedi, i malloppi di coperte pesanti come piombo. Da una slitta pende una corda. Mi aggrappo, a tratti, quando ne ho la forza. Sono i morti che mi fanno marciare, queste statue posate lungo la pista, i morti di stanchezza. Sostiamo per un attimo. Anche qui c’è un morto: è appoggiato su un gomito, con il busto sollevato, come se volesse alzarsi. Comincia la notte. Autocarri che bruciano, autocarri abbandonati. Sono gli ultimi che incontriamo. Nella luce degli incendi, accanto agli autocarri, montagne di casse vuote e sfasciate. C’è una cassa di gallette, gli alpini si buttano come lupi affamati. Gridano che c’è zucchero tra le casse vuote e la neve. Raccolgono manate di neve e l’assaggiano, ma non è che neve, neve. La colonna è andata avanti. Per raggiungerla si corre sbandando, urtandoci, con gli occhi sbarrati. Arriva, da lontano, l’urlo della colonna. Forse è un villaggio, forse è il caposaldo tedesco. Raggiungiamo le prime case. Il Vestone e il Verona stanno uscendo, vanno a combattere per occupare un villaggio poco lontano. Nel villaggio sfiliamo tra gli alpini della Cuneense. Sento che urlano in piemontese. Non ce la faccio più a camminare: salgo sulla slitta della 109. Il freddo è atroce, sui 40 gradi sotto zero. Adesso siamo fermi. Maccagno indica una fascia di isbe, grida che sono vuote, che dobbiamo occuparle. Maccagno era qui da parecchio tempo: fin dal mattino aveva lasciato il battaglione. Un povero soldato italiano, senza giacca, senza guanti, senza passamontagna, sembra nudo in questo freddo. S’infila in mezzo alla compagnia, urla, sbraita: “Voglio un ufficiale italiano – grida – datemi un ufficiale italiano”. È impazzito. Si gira a scatti, di qua e di là, per non essere colpito alle spalle, urla come una bestia ferita. Qualcuno lo beffeggia, altri lo spingono, lo buttano fuori. Puntiamo in direzione della zona assegnata. Non c’è un buco libero, tutte le isbe sono occupate da reparti della Cuneense, dai comandi del corpo d’armata e della Tridentina. Ci aggiriamo inutilmente: noi ufficiali avanti, gli alpini dietro a branchi. “Si gela”, gridano a tratti, come un lamento. Attorno alle isbe, stesi sulla neve, la testa contro il muro, alpini che dormono, che gelano. 45 gradi sotto zero: è la notte dei pazzi e degli assiderati. Ricompare il pazzo. Urla, si scatena come un indemoniato. Gli gridano di allontanarsi. Piange, grida che non ne può più, che vogliamo ammazzarlo. Si gira a scatti, gli occhi sbarrati, grandi, che gli escono fuori: ruota su se stesso, agitando le povere mani piagate dal congelamento. Continuiamo ad aggirarci, non c’è un buco libero. Ormai siamo in pochi, anche i pochi si sbandano. Resteremo all’aperto fino alle due del mattino: c’è un reparto che forse, a quell’ora, lascerà libere tre isbe. Ho freddo, tanto freddo, sono scosso da brividi, la stanchezza mi atterra, non vedo che disperazione. Arriva un altro pazzo, un ufficiale ungherese. Arriva urlando come una bestia, corre e urla. Cade, rantola, non si alza più. Si addormenterà subito, morirà come un cane. Un’isba si è improvvisamente incendiata e le munizioni e le bombe a mano saltano in aria con vampe e scoppi. Qualche alpino sta abbrustolendo tra le fiamme. C’incolonniamo di nuovo accanto all’isba che brucia. Il vento forte minaccia di trasportare le fiamme sui tetti di paglia vicini. Ci precedono l’Edolo e alcune batterie di artiglieria. Lunga sosta. Tutta la colonna è ferma da più di un’ora. Alle spalle gli alpini urlano, a tratti, quasi in coro, che gelano. Dall’incendio arriva un po’ di calore, la luce viva illumina il triste scenario. Un cappellano parla al vento, parla a voce alta e dice: “Poveri alpini, che fine vi hanno fatto fare; morirete, moriremo tutti”.(Laici.it)
(brano tratto da ‘La guerra dei poveri’ di Nuto Revelli, edito da Einaudi)