Guerra! Guerra! Fu il grido risoluto per l’agognata libertà che i milanesi espressero con accorato spirito d’indipendenza e d’italianità alla Scala nel 1859 (e dire che la Norma proprio in tale teatro alla prima, 26 dicembre del 1831, non era stata del tutto compresa dai milanesi per poi ripararvi il giorno dopo con una vera e propria infinita ovazione), vigilia della liberazione dal dominio straniero e dall’Unità d’Italia.
Bellini garibaldino repubblicano ante litteram? Su Bellini circolano, possiamo ormai dire da secoli, una serie di aneddoti, molti di indubbia veridicità. Tra questi quello che a mio avviso può più di ogni altro può fare riflettere sulla personalità del compositore è senza dubbio la vicenda, peraltro confermata dalla famiglia a Cicconetti (primo biografo di Bellini), che vuole che il piccolo Vincenzo (‘Nzuddu per i familiari) un giorno “vedendo per la strada una donna piangente trascinata da due guardie al vicino posto di polizia, si lanciò per liberarla e pretendeva che le guardie la lasciassero andare” . Se ne potrebbero raccontare altre di storie del piccolo Vincenzo per delineare l’animo generoso e profondo del Bellini.
Partito a 19 anni da Catania sbarcò a bordo di un veliero a Napoli, per studiare al Real Conservatorio S. Sebastiano, allora capitale del Regno delle due Sicilie, ovvero fece il viaggio inverso rispetto allo sbarco dei mille in Sicilia. Tutto ciò nel 1819, cioè 41 anni prima di Garibaldi. Ma l’avventura politica di Bellini, che l’amico e compagno di conservatorio Florimo chiamò “novilunio di libertà” , durò l’arco di pochi mesi il tempo di respirare un po’ di aria di libertà costituzionale e si concretizzò con l’adesione alla Carboneria (che chiedeva una nazione Repubblicana e non monarchica come invece volle lo stesso Garibaldi). Il Conservatorio fu in parte trasformato in sede del governo liberale e del parlamento costituzionale del Regno. Uno dei capi dell’insurrezione, che aveva coinvolto una parte consistente del popolo, contro il dominio dei Borboni era il patriota Guglielmo Pepe, ex generale di Gioacchino Murat, che aveva già combattuto nel 1799 per la difesa della Repubblica Partenopea. Il pavido re, Ferdinando che fu II, IV e dopo il 1815 , divenne I, preso dalla paura “di sua propria e libera volonta’” dovette concedere l’ agognata Costituzione al suo popolo. Dopo di che guarda caso si ammalò e lasciò la reggenza al figlio Francesco, duca di Calabria. Dopodichè guarito improvvisamente ritornò e giurando sul Vangelo il rispetto per una monarchia costituzionale fu acclamato dai suoi sudditi re costituzionale. Napoli cambiò “profondamente Bellini, tanto poco egli somiglia al fanciullo che qualche mese prima si era distaccato singhiozzando dalle braccia materne!”. .
Ma non dimentichiamo che alla rivoluzione di luglio anche la Sicilia partecipò (poi repressa duramente e col sangue dal governo liberale di Napoli a seguito della dichiarazione di indipendenza). E come hanno scritto i biografi belliniani “ la voce della patria non trovò mai Bellini indifferente”. Ricordiamo inoltre, affinchè la memoria non ci tradisca, che i Borboni imposero alla morte del nostro Bellini (Parigi, 23 settembre 1835) che la salma dello stesso non rientrasse da Parigi in patria (solo nel settembre del 1876) per paura, viste le continue sollevazioni di popolo contro l’invasore borbonico, che l’immagine dell’eroe catanese’, di cui le opere erano conosciute in tutta Europa, potesse esaltare ancora di più gli animi dei patrioti siciliani.
Un anno dopo il vile e bugiardo re Ferdinando I, facendosi forte dell’intervento dell’esercito austriaco, mise fine alla effimera rivoluzione rinnegando la costituzionale che aveva ‘giurato’ e ad ogni proposito di libertà e autonomia del popolo del Regno delle due Sicilie. I capi della rivolta e oltre mille patrioti furono condannati a morte (Guglielmo Pepe riuscì a fuggire) , altri incarcerati o mandati all’esilio. Anche Bellini e Florimo temettero delle rappresaglie: “sentivamo una certa paura di carceri, di galere, di patibolo; ma principalmente ci faceva tremare l’idea d’essere cacciati dal Collegio” scrisse lo stesso Florimo , e ancora “il peccato morì nell’ombra di un confessionale, oltre all’imposizione di gridare “Viva il re” durante una dimostrazione al teatro S. Carlo” così come fu loro imposto dal rettore del Collegio, D. Gennaro Lambiase, “ottimo sacerdote ma borbonico fino al midollo”. Contrariamente oggi non avremmo conosciuto le opere del nostro Bellini perché un’espulsione dal Conservatorio avrebbe significato non poter più frequentare altri Conservatori e difficilmente sarebbe stato accettato da alte scuole musicali di Napoli ma anche in quanto è più che pensabile che il Decurionato catanese gli avrebbe sospeso definitivamente il sussidio che gli aveva concesso per studiare musica ( e non certamente per aderire ai Carbonari che chiedevano l’indipendenza dell’Italia dagli invasori). Un ultimo atto eroico che chiuse forse definitivamente il ‘novilunio” (senza però dimenticare, sostengono i critici, una ispirata assonanza patriottica con gli inni di guerra della “Norma” e i cori dei “Puritani) per Bellini e Florimo lo possiamo riscontare quando interrogati dal rettore che cercava di conoscere i nomi dei Cugini (così si chiamavano i Carbonari tra loro) che avevano conosciuto nelle logge risposero quasi all’unisono come se si fossero messi d’accordo prima: “siamo venuti ai suoi piedi per confessare le colpe nostre e non quelle degl’altri “.
Alfio Lisi
Catania