Gianluca Giansante: "La sinistra deve smettere di sentirsi aristocratica"

di Francesca Buffo

Il pubblico sanremese prima, e quello di Youtube nei giorni successivi all'annuale kermesse musical-nazionale, ha assistito alla ridicolizzazione della nostra classe politica fatta dai due bravi comici Luca e Paolo. Ci sarà chi ha pensato che ridere della sinistra il giorno dopo la presa in giro della destra fosse un dovere di equilibrio ‘bipartisan’. A dire il vero, la satira, in quanto tale, dev’essere al di sopra delle parti e lo stesso Luca, a un certo punto della manifestazione, ha giustamente ‘sbottato’ rivendicando il diritto di criticare obiettivamente e lucidamente una situazione che lascia ben poche interpretazioni, sotto tutti i profili e sotto qualsiasi angolazione la si voglia vedere. D’altronde, pensare che criticare la sinistra italiana debba essere una sorta di ‘pareggiamento dei conti’ rispetto ai consueti attacchi mediatici a Silvio Berlusconi, fattispecie imposta a Sanremo dall’attuale dirigenza della Rai, potrebbe far credere che, nel mondo della politica, esista una parte ‘migliore’ rispetto a un’altra. Non è affatto così, come ci conferma in questa intervista l’esperto di comunicazione politica ed editorialista del quotidiano ‘il Riformista’, Gianluca Giansante.

Dottor Giansante, secondo lei la politica è morta? Siamo all'impero totale dell'immagine rispetto ai contenuti?
“Parafrasando la domanda, diciamo che la politica non è mai esistita. Nel senso: sfatiamo questo mito che chi segue la politica si informi e sappia tutto nei dettagli. Questo non è vero oggi, così come non era vero quando i media erano molto meno diffusi. In passato, forse, c'erano modalità di informazione più approfondite, ma si passava sempre attraverso la mediazione della carta stampata, che comunque era una forma di semplificazione”.

La politica, o per lo meno la comunicazione politica, secondo lei è sempre appartenuta al terreno della comunicazione ideologica di massa?
“Non userei il termine ideologico, perché ha un'accezione negativa, bensì parlerei di semplificazione. Questo è infatti il primo grande vantaggio, il primo elemento che i media oggi permettono, perché la politica, di per sé, è un tema molto complesso, che le persone non possono seguire completamente, altrimenti, diciamocelo, non potrebbero più lavorare o non avrebbero più il tempo di svolgere le loro vite e le loro attività. Quindi, la politica è molto complessa e i media la semplificano. E, in questa semplificazione, ci può essere, in qualche modo, la volontà di restituire un'immagine neutrale o di favorire una parte piuttosto che un'altra. Questo, ovviamente, sta alla deontologia del giornalista o del conduttore televisivo”.

In questo, però, l'Italia ci sembra messa piuttosto male, perché alla fine tutti appartengono a un accampamento più o meno lottizzato e il giornalista 'puro', quello neutrale, sembra non esistere più. La stessa questione deontologia viene mediata con il messaggio che si tende a veicolare: se a un certo punto, anche per questioni di sopravvivenza professionale, un giornalista è tenuto a considerare una certa parte politica, finisce col ritenere la propria 'appartenenza' neutrale per definizione, perdendo di vista un concetto oggettivo della neutralità stessa: lei cosa ne pensa?
“Io dissimulerei, in questo caso, due fenomeni. Il primo è quello che voi avete definito 'lottizzazione': ogni conduttore ha la sua 'bandierina', la sua parte politica. Si tratta di un fenomeno tutto italiano che però, anche se con sfumature diverse, accade un po' in tutto il mondo. Sfatiamo, dunque, anche il mito che noi saremmo sempre le 'pecore nere': non è vero, accade anche da altre parti. Chiunque abbia vissuto in Spagna, piuttosto che in Francia sa bene che ci sono dei fenomeni analoghi. E' vero che in Italia la lottizzazione è stata in qualche modo codificata, che ha raggiunto dei livelli parossistici, ma non si tratta di un fenomeno solo italiano. Poi c'è un altro fattore da tenere in considerazione: la capacità della politica di adattarsi al telegiornale o a certe tipologie di 'talk show'. Alcuni politici ci riescono meglio, altri meno bene. E' in questo senso che possiamo 'leggere' il grande successo del Pdl, del centrodestra o della Lega e un certo arretramento, per esempio, del Partito democratico. Non è l'unica ragione, è evidente, ma è una delle ragioni che fanno crescere Di Pietro, per esempio, e fa andare indietro, nei consensi, il Pd”.

Perché, in questa logica di semplificazione, il giustizialismo, o viceversa il garantismo 'piagnone' del centrodestra, funzionano più della moderazione o della comunicazione neutrale?
“Ripensiamo, per esempio, al 1992, allorquando Di Pietro si affacciò alla ribalta pubblica: tutti ne sottolineavano le capacità comunicative, mediatiche. Qualche anno dopo, invece, è diventato 'rozzo', quello che non sa parlare. Ebbene: il punto della questione è che Di Pietro, così come la Lega, dietro l'apparente rozzezza o semplicità nasconde una certa 'perizia', che non è altro che la capacità di corrispondere al mezzo televisivo, un mezzo che, per natura, semplifica ogni discorso”.

Non è, per caso, proprio la televisione a distorcere la comunicazione politica, soprattutto sotto il profilo della qualità?
“Diciamo che la televisione dà una sua interpretazione particolare. Io non distinguerei tra una politica con la 'p' maiuscola – cioè seria – e una una mediata, perché quel che gli elettori riescono a vedere, in televisione, è solo ed esclusivamente quella mediata. Quindi, chi non riesce in qualche misura ad adattarsi a simili parametri, arretra. In questo senso, è divenuto molto importante per le forze riformiste, o per il politico preparato, quello 'bravo', diciamo così, corrispondere al mezzo televisivo, altrimenti lascia in qualche modo il dominio a quelle forze che, invece, sanno utilizzare i media, pur essendo meno serie o meno affidabili”.

Quindi, il Pd è una forza che non riesce a trovare una propria chiave interpretativa che sappia svolgere una funzione di novità?
“Sì, c'è una certa difficoltà del Pd, ma non solo del Pd. Un altro che sconterà, in maniera molto forte, l'incapacità ad adattarsi, per esempio, è Fini, il quale viene molto apprezzato dagli osservatori, si pensa che possa prendere il 10%, stando ai sondaggi e quant'altro, ma le urne probabilmente gli restituiranno un risultato minore rispetto alle attese, proprio per questa sua difficoltà a comunicare in televisione, di semplificare i concetti, per questo suo interessarsi a questioni che risultano lontane dal sentire comune, dal quotidiano dei cittadini. Sono le persone quelle che, alla fine, determinano chi vince e chi perde”.

Detta così, sembra esistere una sorta di 'tirannia' del cittadino: sostanzialmente, lei sta sostenendo che la politica 'alta' non ha molta possibilità di essere apprezzata dal popolo, che alla fine, invece, preferisce una comunicazione opportunista, se non proprio 'populista'…
“Io non utilizzo il termine populista, perché mi sembra un modo di denigrare: è un pregiudizio. Io penso, invece, che la politica debba esser capace di avvicinarsi ai cittadini, di farsi comprendere, perché è pacifico che una persona che non comprende quel che si sta dicendo non possa poi nemmeno sostenerlo. E siccome molte persone non si intendono di politica, dev'essere la politica a semplificare il proprio messaggio, in modo da far capire quali sono le questioni in gioco e permettere una scelta più consapevole”.

Riguardo alla politica 'urlata', questo strano modo di confrontarsi e di scontrarsi di alcuni esponenti politici nei dibattiti: quanto c'è di costruito in tutto questo, secondo lei?
“Sicuramente è una tendenza che premia: questo i politici lo sanno bene. Quando il confronto è più duro in televisione, quello è proprio il momento in cui gli indici di ascolto salgono tantissimo. Quindi, alzare il livello dello scontro è una misura per essere più visibili. Pertanto, io sfaterei anche quest'altro mito: quello della televisione che alimenta il conflitto e del telespettatore che, invece, è stufo di certe asprezze. Non è vero: i dati auditel ci dimostrano che il conflitto, in qualche misura, viene premiato da chi guarda la televisione. Ora, che sia giusto, ingiusto, etico, non etico, lo lasciamo alle valutazioni di ciascuno. Tuttavia, alle persone piace”.

Il 'mix' comunicativo che ha saputo creare il Governatore della Puglia, Nichi Vendola, può funzionare, a sinistra, secondo lei?
“Sì, ma nel caso di Vendola dobbiamo sgombrare il campo dall'idea di cui stavamo parlando prima. Innanzitutto, quando ci troviamo ad analizzare le diverse forme di comunicazione politica non dobbiamo concentrarci soltanto sulla televisione, ma dobbiamo osservarle tutte. Come già detto, le forme di comunicazione interpersonale hanno bisogno di una certa semplificazione. Ma prima di parlare di Vendola, posso segnalare l'esempio di Gomorra. Sia per chi lo ha letto, sia per chi non lo ha letto, Gomorra è un libro che ha venduto milioni di copie, che spiega il tema della mafia attraverso una narrazione, come un romanzo, dunque in una maniera molto semplice, avvincente, che si segue. Un libro come Gomorra ha avuto molta più efficacia nel comunicare il tema della mafia rispetto a tanti saggi, altissimi e importanti, di grandi professori. Questo è, perciò, il vero tema di fondo, quando ci rivolgiamo alla massa. E la politica è una delle forme per eccellenza della comunicazione di massa. Venendo alla comunicazione di Vendola, voi dite bene: si tratta di un politico che ha un proprio stile, molto efficace. E questo per tre ragioni: la prima, usa un lessico molto elevato, quasi poetico. Questo, che potrebbe sembrare in contrasto con quanto abbiamo detto sino a ora, nel suo caso funge da elemento di differenziazione, lo diversifica dagli altri politici. Vendola si presenta diversamente e parla in modo diverso. E questo corrisponde alla sua immagine, come la Lega, che dice le 'parolacce'. Questa forma di comunicazione è efficace non perché le parolacce siano efficaci, bensì perché contribuisce a rafforzare l'idea di un movimento diverso, antipolitico. Se le 'parolacce' le dicesse Bersani, ciò non migliorerebbe la sua comunicazione, perché in qualche modo essere efficaci significa corrispondere alla propria immagine, avere un vestito che ti sta bene, della 'taglia' giusta. Il secondo elemento di efficacia di Vendola risulta, inoltre, la capacità di raccontare storie, poiché possiede un'attitudine alla narrazione. Le faccio un esempio: durante un comizio, Vendola disse: “Sapete perché faccio politica? Perché ho delle soddisfazioni”. E iniziò a raccontare la storia di un ragazzo disabile che aveva usufruito di un buono per il pc e che, con questo pc, aveva trovato la fidanzata. E alla fine concluse: “La fidanzata! Voi capite cosa significa per un disabile riuscire a trovare la fidanzata”? Questa abitudine, che Vendola utilizza spesso, di raccontare piccoli episodi, risulta molto efficace, perché permette di ricordare meglio quanto è stato narrato. Se Vendola dicesse: “Abbiamo dato 10 mila bonus per incentivare l'acquisto dei pc in favore dei disabili” sarebbe molto meno ricordato, scriverebbe sulla 'sabbia', mentre invece raccontare la singola storia significa fissare più facilmente nelle menti di chi ascolta un concetto. In secondo luogo, certe storie danno un coinvolgimento emotivo e le persone si emozionano nel sentire un aneddoto come quello che vi ho raccontato. Un racconto che Vendola, poi, sa 'condire' con dettagli e particolari, riuscendo, in qualche modo, a emozionare, a far sentire chi lo vota parte di un bel 'film'. Il terzo elemento di comunicazione efficace di Nichi Vendola è la sua capacità a utilizzare delle metafore. La metafora è molto importante, perché semplifica il discorso politico rendendo un concetto difficile, molto più semplice da comprendere. Vendola, per esempio, quando vuole criticare il vecchio modo di gestire il consenso parla di una politica “che puzza di morte”, mentre quando quando si riferisce ai suoi attivisti, parla di una politica che profuma di vita, ecco”.

E i giornalisti? Quanto i conduttori, nella loro preparazione e nel loro saper comunicare le proprie conoscenze della politica, a volte fanno politica più dei politici?
“Molti giornalisti conoscono il mezzo televisivo. Quindi, sanno che un sorriso e un'affermazione chiara e diretta valgono molto di più di un'idea ben espressa. E' anche corretta la critica di certi giornalisti che, invitando in trasmissione una persona piuttosto che un'altra, possono dare un indirizzo condizionato. Il 'caso Polverini' è il più evidente in tal senso, poiché si tratta di una protagonista che ha costruito la propria notorietà grazie ai due anni di 'Ballarò'. E questo perché? Semplicemente, perché se io non conosco un prodotto, non lo posso acquistare, se io non conosco un politico, non lo posso votare: é evidente. Quindi, è più facile che, chi ha una grande visibilità – e in Italia la grande visibilità la dà la televisione – riesca a ottenere tanti voti: é molto semplice”.

Tornando ai problemi del Partito democratico, dal punto di vista comunicazionale, un movimento di questo tipo deve imparare qualcosa da Vendola o da Berlusconi? Siamo sicuri che il vero problema non sia quello di un'identità troppo vecchia, troppo vicina al passato Pci o alla Democrazia cristiana di sinistra? Oppure ancora è una questione di personaggi, che son sempre quelli?
“Il Partito democratico ha tanti problemi. Il primo è che non riconosce di avere un problema sulla comunicazione, pensa che i problemi siano ben altri.: è malato di 'benaltrismo'. Il secondo è una concezione aristocratica della politica, o quanto meno burocratica, cioè l'incapacità di mettersi al livello delle persone e il 'vizio' di volersi esprimere molto spesso per tecnicismi, di usare un lessico per addetti ai lavori, di parlare sempre del Partito democratico. Quindi, molte volte gli esponenti del Pd non intervengono sulle questioni vere della politica. Prendiamo, per esempio, le questioni economiche: cosa facciamo per i giovani? Perché certi contratti vengono chiamati flessibili? E invece parla di se stesso, delle primarie, del candidato, del Segretario, del cosa facciamo? Cosa non facciamo? Sono temi che interessano poco alle persone, non riescono ad appassionare la gente, se non i 'drogati' della politica, quelli che seguono certe vicende perché hanno 'il morbo'. C'è un famoso libro di un consulente americano che dice: “La politica è meglio del sesso”. E in effetti, per chi la segue, la politica ha una capacità di coinvolgimento che è superiore persino a quella sessuale. In ogni caso, la questione più seria del Partito democratico rimane questa sua concezione aristocratica della politica, la sua incapacità a mettersi allo stesso livello delle persone che poi lo dovrebbero votare. Soprattutto, da un punto di vista lessicale, con termini come quorum, aula, forze 'centripete' e così via. Un Partito che si definisce democratico dovrebbe riuscire, invece, a farsi comprendere dalle persone più umili, dai ceti con il titolo di studio più basso, dalle 'vecchiette' che non sono mai andate a scuola, perché anche questo significa essere democratici: comprendere veramente che qualsiasi voto ha lo stesso valore di tutti gli altri, che quello del pensionato di Vigevano ha lo stesso valore del docente universitario”.(Laici.it)

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