Dalla resistenza di Mirafiori la speranza per un’altra Italia

Dalla resistenza di Mirafiori la speranza per un’altra Italia

Il coraggio di dire no. Dagli operai di Mirafiori una lezione per la sinistraHo guardato di nuovo la televisione, stasera. Una mezzora: e ho pianto. Lacrime, lacrime vere, lacrime inarrestabili. Ho pianto sintonizzato su La7 al programma della Costamagna e Telese, quando una lavoratrice di una ditta (“sana”, ha precisato; mai avuto problemi col padronato, abbiamo sempre dialogato, nessuno di noi pensava al sindacato, mai fatto uno sciopero in vita mia…) ha raccontato la storia sua e dei suoi colleghi e colleghe che di colpo hanno ricevuto una lettera che annunciava che dalla fine del mese di gennaio le loro attività da None (Torino) si trasferiranno presso altra ditta, ad Assago (Milano). Distanza 180 chilometri. Moltiplicato per due – andata e ritorno, mattina e sera – 360.

Ho pianto alle storie di dolore, di disperazione, per il tempo di vita che il padrone d’improvviso, senza neppure il buon gusto di provare a spiegare, ad aprire una discussione, ha loro rubato. La casa, i partner, i figli, il riposo, lo svago…: tutto strappato via. E la salute, messa a dura prova. Ma che possono fare, quei lavoratori? Prendere o lasciare: lasciare il posto di lavoro alle centinaia di altri pronti a prenderlo a qualsiasi condizione. Per ora, quei lavoratori e lavoratrici resistono, e sono in sciopero. A oltranza.

Collegata in video la maschera inerte, cattiva, levigata della signora Santanché, divenuta sottosegretario al governo del cavaliere, avendo per prima mollato uno Storace in disgrazia (poi rientrato nei ranghi anch’egli) col capo supremo: sottosegretaria a non-so-che, ma non importa. La Santanché, specialista della rissa, già berlusconiana, poi antiberlusconiana, quindi superberlusconiana, ha blaterato, facendo uscire dalle labbra perfettamente disegnate da un compiacente lips-stylist, dicendo che lo sciopero era cosa osboleta, che lei avrebbe “stretto i denti” (!?) e si sarebbe presentata regolarmente al lavoro tutte le sante mattine che dio manda in terra. Ad Assago. (Me la vedo!).

Il servizio che illustrava la vicenda di quei lavoratori, mi ha strappato le prime lacrime; poi la maschera di cera della signora sottosegretario me le ha asciugate, facendomi urlare di indignazione. Ma mi ha colpito, nei pochi istanti in cui qualcuno riusciva a farla tacere, lo sguardo di compatimento che riservava alla lavoratrice, che, a suo dire, scioperando, si lasciava “abbindolare” dalla sinistra (?), con la donna, a sua volta quasi con le lacrime agli occhi, che rivendicava il diritto di pensare, lei e le sue compagne di lavoro (o di ex lavoro), con la propria testa.

Disgustato, ho schiacciato il pulsante e mi sono trovato sul buon Fazio che intervistava Maurizio Landini: mi sono sentito subito meglio. Ma sono bastati pochi istanti, e il fuoco – il sacro fuoco, detto con la massima sincerità e la più grande ammirazione – di questo eroe dei nostri tempi, Landini, il serio, umile e grandioso, impavido segretario Fiom, mi ha commosso di nuovo. Mi sono sentito parte di quel movimento che al Sindacato dei Metalmeccanici oggi guarda come a uno dei pochi segnali di esistenza di qualcosa che non intende piegarsi al marchionnismo. E sono ritornato a riflettere sull’esito del “referendum” di Mirafiori.

Ebbene, io non credo si sia trattato di un sconfitta: al contrario, è stata una vittoria. Solo poco meno della metà dei votanti (circa il 95% degli aventi diritto) ha detto No. Mentre almeno una metà dei Sì era, dichiarazioni alla mano, un’accettazione del diktat di Marchionne, con le mani tremanti e il cuore spezzato. Un Sì che dentro quel cuore e sotto quelle mani avrebbe voluto essere il suo opposto: un no forte, coraggioso, come quello dei compagni di reparto che quel coraggio hanno trovato. E che sono stati stragrande maggioranza là dove il lavoro è pesante, là dove il peggioramento delle condizioni sarebbe insopportabile. Ma non ho avuto mai un moto di sdegno verso coloro che hanno tracciato la croce su quel Sì, in quanto essi sapevano che quella era la croce che li avrebbe inchiodati a una condizione di lavoro semiservile, premoderno, antecedente alle grandi, secolari lotte per l’emancipazione degli sfruttati, che sono state combattute, a carissimo prezzo, da generazioni di uomini e donne, in Italia e altrove. E che ora il signor Marchionne, il “modernissimo” cosmopolita delle stock options, pretende di cancellare dietro quella crocetta.

No. Non con chi, piegandosi al ricatto, ha detto di sì, sono indignato; a loro, bisogna guardare con lo stesso rispetto con cui guardiamo a chi ha resistito. Sono “uomini (e donne) di carne ed ossa”, scrisse Gramsci, amaro e compassionevole, commentando la sconfitta operaia del 1920, che già ho richiamato su questo blog (e altrove). Il ricatto del lavoro, su chi non ha che le proprie braccia per sopravvivere, e del lavoro “sotto padrone” ha bisogno, funziona. Ma oggi, a differenza di allora, gli operai e le operaie della Fiat non sono soli: e dobbiamo continuare a stare al loro fianco. Mai, dagli anni Settanta, si era vista una tale mobilitazione al fianco della Fiom, al fianco della classe operaia della Fiat. Torino, innanzi tutto; ma non soltanto Torino. La signora Santanché ha sparato: “col Sì è l’Italia che ha vinto”. Quale Italia? – le vorrei domandare. Non certo quella degli schiacciati, degli sfiancati, degli oppressi dal lavoro servile, da coloro ai quali lei, signora, e la sua parte politica, li vuole condannare, con l’alibi della crisi e sotto uno specioso richiamo alla globalizzazione. Se esiste una Italia che ieri ha salutato brindando quella risicatissima maggioranza di Sì, è formata da una minoranza di falliti, di sfruttatori e parassiti sociali. Proprio come lei, signora.

Anzi, io che avevo preconizzato una vittoria anche in caso di sconfitta numerica dei NO, confermo quel giudizio. Oggi Mirafiori resiste, e ha al suo fianco tutta l’Italia che si riconosce nei princìpi e nei valori difesi da quegli operai e quelle operaie, a cominciare dalla dignità della persona: quella glorificata un giorno sì e l’altro pure dal papa, che non trova parole per riconoscere a costoro quel che meritano, né ne trova per mettere alla gogna un presidente del Consiglio adescatore di minorenni, mentre condanna l’educazione sessuale a scuola.
Ebbene, dietro l’apparente sconfitta emerge un’altra Torino, un’altra Italia – e forse un altro possibile mondo – che non si piega al turbocapitalismo dei Marchionne, al neopopulismo autoritario e, ormai, “mignottocratico” (Paolo Guzzanti docet), al becerume secessionistico e razzista della Lega Nord (“Padania”…), al moralismo ipocrita del Santo Padre.

Dirò di più. Questa Italia, quella che non vuole morire clericale, berlusconiana, leghista e marchionnizzata, questa Italia è oggi maggioranza. Abbiamo appena “celebrato” la sconfitta del 1980, ancora alla Fiat: la marcia dei Quarantamila. Allora si parlava di “maggioranza silenziosa”, rappresentata anche fisicamente dai “quadri” di Mirafiori e Lingotto scesi in piazza contro il sindacato, contro la classe operaia; ebbene, io credo che oggi noi – anche noi qui che ci raccogliamo intorno a MicroMega o in altre trincee – siamo maggioranza. E siamo rimasti troppo a lungo silenziosi, inerti, o complici: è giunto il momento di riprendere la voce e di alzarla forte e chiara. E gridare: NO! Continuare a dire NO, mentre collaboriamo tutti alla crescita di soggetti sociali, culturali e politici in grado di dire Sì: ma a un altro Paese. Quello da costruire insieme.

Angelo d'Orsi

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