Un silenzio assordante avvolge tanti insegnanti, tanti adulti che non sanno e non vogliono sapere, tanti sindacati e sindacalisti in affanno, che non prendono iniziative, tanti intellettuali trincerati nelle loro dotte e inutili disquisizioni, lontani dalla realtà.
I leader dell’opposizione spendono solo flebili, occasionali parole sulla scuola ma non l’hanno mai messa realmente al centro del loro progetto politico. Ogni tanto si affacciano su una piazza, su un tetto, a un sit-in o a un convegno per esprimere un conforto verbale, un tiepido impegno, scampoli di promesse a cui non possono più credere neanche gli ostinati, volenterosi professionisti della speranza.
Chi ha messo invece la scuola al centro della sua agenda politica è stato, tenacemente, il Governo.
Non è vero che non ha fatto niente in questi due anni: ha fatto molto in realtà, bisognerebbe dirlo ai tanti giornalisti e ai tanti cittadini italiani che vanno ripetendo questa formula come un mantra vagamente consolatorio.
Con l’art. 64 della legge 133 dell’agosto del 2008 e con il relativo piano programmatico attuativo varato da Tremonti, la scuola statale italiana, già languente, è stata condannata a morte, complici i provvedimenti Gelmini, che hanno consentito lo smembramento strutturale dell’intero sistema, pezzo per pezzo. Ancora un ultimo anno, poi non resteranno più neppure le disiecta membra.
Perchè un tale accanimento?
All’indomani della sua ultima vittoria elettorale, Berlusconi indicava, in una puntata di Ballarò, i luoghi in cui si nascondevano i suoi nemici comunisti e dove li avrebbe, conseguentemente, stanati: nelle scuole, nella magistratura, tra i giornalisti, nelle televisioni.
Proprio in quest’ordine. Specificando ulteriormente: tra gli insegnanti medi.
L’urgenza personale di abbattere in primis quel nemico (del resto anche il più debole, non essendo una casta, non essendo un potere forte) ha intercettato il generale risentimento verso la pubblica amministrazione, ben incarnato dal ministro Brunetta, la cui acredine nei confronti dei lavoratori statali si tinge spesso di sfumature patologiche. Il disprezzo verso la cultura (roba inutile, che non si mangia), il pervicace convincimento, a dispetto di ogni evidenza, che il pensiero è semplice, e la necessità di rispettare il patto di stabilità imposto dall’Europa hanno infine consentito a Tremonti la quadratura del cerchio per mantenere i conti in ordine, ovvero tagliare gli sprechi dove non ce n’erano, licenziare il personale dove la catena di montaggio non si fermava, contenere la spesa pubblica con tagli draconiani nell’unico settore dove nessuno avrebbe significativamente reagito.
Del resto anche il Rapporto sull’istruzione della Fondazione Agnelli nel 2009 ci dice che “per la prima volta, nella storia recente della scuola italiana, l’evoluzione demografica del corpo-docente, con il considerevole incremento nel prossimo decennio dei flussi fisiologici di docenti in uscita e con la sospensione dell’immissione in ruolo dei precari, rende possibile avvicinare il rapporto insegnanti/studenti della scuola pubblica italiana alla media europea senza creare eccessive tensioni sociali”.
Troppo impegnati a difendere il nostro “particulare” e a non considerare prioritario il bene comune, come la nostra storia da sempre c’insegna, non abbiamo significativamente reagito ai tagli di 8 miliardi di euro decisi nell’agosto del 2008 mentre eravamo in vacanza e non volevamo essere disturbati da cattive notizie; non abbiamo significativamente reagito al mancato pagamento alle nostre scuole di un miliardo e mezzo di crediti residui; non abbiamo significativamente reagito alla mancata erogazione, per due anni, dei fondi per il funzionamento didattico e amministrativo; non abbiamo significativamente reagito all’espulsione di 130.000 nostri colleghi precari affatto superflui; non abbiamo significativamente reagito all’aumento progressivo del numero degli alunni per classe, alla mancata assunzione degli insegnanti della materia alternativa alla religione cattolica, o dei supplenti che ci sostituiscono quando noi ci assentiamo e dei docenti di sostegno per nostri alunni disabili; non abbiamo significamente reagito quando hanno deciso di calmierare la presenza di alunni stranieri nelle nostre scuole, senza capire che molti di loro, nati in Italia, sono italiani di fatto ma non di diritto; non abbiamo significativamente reagito al blocco del nostro contratto di lavoro, dei nostri scatti di anzianità maturati; non abbiamo significativamente reagito allo scippo della nostra contrattazione integrativa e, ora, del nostro TFS.
Quasi come se tutto questo non ci riguardasse. Ai limiti dello scollamento dalla realtà.
Ma, soprattutto, non abbiamo significativamente reagito all’affronto fatto alla nostra Costituzione, permettendo a questo Governo di privatizzare prima la scuola e ora l’Università; non abbiamo significativamente reagito all’affronto fatto all’istituzione democratica che dovremmo orgogliosamente rappresentare, la scuola, strumento di emancipazione culturale e di crescita sociale, palestra di cittadinanza critica, attiva e partecipativa. Non abbiamo significativamente reagito in difesa del diritto allo studio, all progettualità, al futuro dei nostri figli, dei nostri studenti, dei nostri futuri concittadini.
E oggi li lasciamo in piazza da soli, senza i sindacati e senza i partiti, questi ultimi troppo impegnati a sopravvivere a se stessi.
Li lasciamo da soli, senza di noi, adulti, educatori, genitori, cittadini responsabili e consapevoli, prigionieri della nostra ignavia.
Li lasciamo senza protezione, in balia della loro rabbia e dei facinorosi di professione, in balia di politicanti d’accatto pronti a screditarli, a offenderli, a insultarli, a provocarli. In balia di chi, in malafede, è pronto a strumentalizzare ogni loro sentimento, ogni loro comportamento. Non assegnamogli di nuovo l’intera “responsabilità sociale di rappresentare lo scontento di tutti noi”.
Se un residuo di dignità può essere ancora salvato dai ragazzini, che qualcuno di noi adulti sia insieme a loro, a mostrarla con loro.