Quelle basi militari che alimentano le guerre nel mondo

di Francesco Fravolini

Dopo le rivelazioni di WikiLeaks di questi giorni e in tempi di crisi economica e di tagli alle spese, riteniamo fondamentale sottolineare come il budget militare degli Stati Uniti continui a crescere, perché quello della guerra è un business enorme. La presenza militare permanente americana all’estero influisce sui rapporti di forza che governano il mercato globale. E in tutto ciò, fondamentale è il ruolo giocato dall’immensa rete di basi americane all’estero. Gli Usa non vogliono perdere il ruolo di prima potenza mondiale e il presidente Obama, premio Nobel per la pace, continua a ‘esportare’ la teoria che la pace si ottiene con la guerra. Intanto, le basi militari americane sparse in quaranta Paesi del mondo sono 716, avamposti di future guerre, ineluttabili conseguenze di interventi bellici. Nel documentario “Standing Army”, realizzato da Thomas Fazi ed Enrico Parenti, viene messa in evidenza la politica estera e militare statunitense. Dopo tre anni di ricerche e di indagini sul campo, il reportage vuole dar voce alle popolazioni che convivono con i militari americani, ma si prefigge di offrire spunti di riflessione mediante le interviste a esperti quali Noam Chomsky, Gore Vidal, Chalmers Johnson. L’elezione di Obama è stata accolta in tutto il mondo come l’inizio di una stagione politica radicalmente diversa da quella di Bush: una nuova era storica orientata alla pace e al dialogo. Gli appassionati discorsi del neopresidente americano sembrerebbero giustificare questa speranza. Ma nell’ambito della politica estera e militare, la nuova amministrazione differisce davvero così tanto da quelle precedenti? Al di là dei titoli della stampa internazionale, nonché del Nobel per la pace assegnato al presidente per le sue buone intenzioni, si scopre una realtà molto lontana da quella ufficiale: il primo budget militare del nuovo governo, ben 680 miliardi di dollari, supera persino gli ultimi stanziamenti per le truppe dell’era Bush. Dove vanno a finire tutti questi soldi? In gran parte servono a finanziare l’immensa rete di basi militari americane all’estero. Ne parliamo con Thomas Fazi, il più giovane dei due autori del libro-documentario pubblicato da Fazi Editore.

Thomas Fazi, perché c’è un maggiore impegno economico per la costruzione di nuove basi militari?
“I motivi sono molteplici. Molti reagiscono con stupore alla notizia che le spese militari, sotto la presidenza Obama, sono addirittura aumentate rispetto all’era Bush. Ma, in realtà, questa è una tendenza che si va consolidando da anni, che ha subìto una drastica accelerazione in seguito agli eventi del 2001. Le spese militari negli Stati Uniti (e nel mondo) sono stabilmente in crescita dal 2001 (quell’anno ammontavano a ‘soli’ 305 miliardi di dollari, meno della metà del budget attuale). Per alcuni, la ‘guerra al terrore’ è stata una vera e propria fortuna. Ma non c’è da sorprendersi, dopotutto, poiché il paradigma dominante nei circoli militari è lo stesso dei nostri gotha dell’economia: crescita infinita. Anche perché, gli interessi economici in ballo sono enormi. Finché la guerra sarà così proficua per così tante persone non vi sarà mai pace. E le basi militari sono parte integrante di questo sistema di guerra. Anzi, ne rappresentano le fondamenta. Da quando quasi ogni aspetto della loro gestione, dalla fornitura di cibo alla costruzione dei gabinetti, è stata privatizzata ed esternalizzata, sono diventate un business enorme per tutte quelle aziende che ‘ronzano’ attorno al Pentagono come api sul miele, come la Halliburton, legata all’ex vicepresidente Usa, Dick Cheney. A molti può sembrare paradossale che proprio in tempi di crisi economica e di tagli alle spese, il budget militare continui a crescere, raggiungendo con Obama la cifra colossale di 680 miliardi di dollari. Ma forse non è un caso. È un caso che proprio nel momento in cui il cosiddetto ‘consenso di Washington’ sta attraversando la sua crisi più profonda dal ‘29, il primato economico degli Stati Uniti è ormai apertamente minacciato dalle nuove potenze emergenti, Cina in primis, l’America stia rafforzando la morsa militare in cui stringe il resto del mondo, ampliando ulteriormente la propria rete di basi militari? E se queste fossero l’ultima risorsa a cui un impero economicamente, politicamente, culturalmente in crisi ha scelto di aggrapparsi per mantenere quei privilegi a cui non è disposto a rinunciare? La cosa più interessante è che negli Usa anche certi repubblicani, seppur per motivi economici e non etici, hanno cominciato a criticare questa logica. Ecco uno stralcio di un recente intervento della senatrice Kay Bailey Hutchinson: “Stiamo guardando a costruzioni all’estero per un miliardo di dollari, costruzioni di cui non abbiamo bisogno. Tutte queste spese fuori controllo stanno mettendo a rischio la salute degli Usa. Dopo la seconda guerra mondiale abbiamo costruito basi all'estero per aiutare la ricostruzione in tanti Paesi. Abbiamo messo basi in Europa e Corea per difendere gli interessi Usa e degli alleati durante la Guerra Fredda. Ma il mondo è cambiato e anche le priorità delle nostre forze armate devono cambiare. Dobbiamo tenere maggior conto delle esigenze delle famiglie dei militari e delle aspettative dei contribuenti”. Non si direbbe che a parlare sia una repubblicana…”.

La politica di Obama ricalca quella di Bush? Qual è l’elemento di novità?
“Nel documentario noi ci occupiamo esclusivamente della politica estera e militare di Obama, quella che presenta la maggiore continuità con l’era Bush. È ovvio che, in altri campi, dalla diplomazia internazionale alle politiche energetiche, Obama ha effettuato un cambio di rotta piuttosto drastico rispetto alle politiche del suo predecessore. Ma, come ha detto il ‘New York Times’ in un recente articolo, “la spina dorsale della politica americana espressa da Obama resta simile a quella dell'amministrazione Bush”. Abbiamo già parlato del budget militare. Purtroppo, quella è solo la punta dell'iceberg. Nonostante, in campagna elettorale, Obama si fosse ripetutamente scagliato contro le torture e i rapimenti segreti della Cia, egli si è rifiutato di rendere pubblici vari documenti della Cia sulle ‘pratiche di interrogatorio’ di Bush, offrendo l’immunità agli ufficiali dell’amministrazione precedente, implicati in casi di tortura. La prigione di Guantanamo, che Obama aveva promesso di chiudere entro un anno (senza però rinunciare alla base di Cuba), rimane aperta e i suoi detenuti vengono ancora sottoposti a pratiche che molti esperti considerano alla stregua della tortura. Anzi, Obama ha ordinato l’ampliamento delle strutture di detenzione all’interno di altre basi militari, come quella di Bagram, in Afghanistan, dove le organizzazioni per i diritti umani hanno documentato vari casi di tortura e di morti sospette. Per rimanere in Afghanistan, oltre ad aver inviato altre 30 mila soldati di truppa nel Paese, l’amministrazione Obama ha anche intensificato i bombardamenti e gli attacchi aerei su presunte postazioni nemiche, provocando diverse stragi di civili (in un solo attacco, nel maggio 2009, sono morte 150 persone). Allo stesso tempo, ha aumentato l’uso dei famigerati ‘droni’. In Iraq, nonostante il tanto pubblicizzato ritiro delle truppe statunitensi dal Paese, il ministro della Difesa di Obama, Robert Gates, ha dichiarato che, anche in seguito al ritiro, rimarrà sul territorio “una forza residua di varie migliaia di truppe americane”. Si parla di 50 mila soldati, che verranno ospitati in una delle varie ‘mega-basi’ costruite in Iraq in questi anni, a cui gli Stati Uniti non sembrano intenzionati a rinunciare. Proprio sul fronte delle basi militari si nota la maggiore continuità tra Bush e Obama. Quest’ultimo, nonostante le continue proteste dei cittadini, ha confermato i piani per la costruzione della nuova base a Vicenza, continua a spingere per la costruzione di una nuova base militare a Okinawa che qualche mese fa ha costretto alle dimissioni il neoeletto premier giapponese, e annuncia la costruzione di nuove basi militari in Romania, in Bulgaria e in Colombia”.

L’America investe nella guerra come fosse una forma di protezione?
“La guerra è solo l’aspetto più evidente di questo fenomeno. Che gli Stati Uniti siano ricorsi all’uso della forza militare per entrare in possesso delle risorse energetiche di paesi terzi come l’Iraq, ben consapevoli che il petrolio si vada rapidamente esaurendo, mi pare fin troppo evidente. Con questo documentario abbiamo voluto guardare a quello che avviene dietro le quinte. Mi viene in mente una frase del noto giornalista conservatore del ‘New York Times’, Thomas Friedman: “La mano invisibile del mercato globale non può operare senza un pugno invisibile. McDonald’s non può prosperare senza la McDonnell Douglas, il costruttore degli F-15. Il pugno invisibile che mantiene sicuro il mondo per il fiorire delle tecnologie della Silicon Valley si chiama Esercito degli Stati Uniti, Marina degli Stati Uniti, Aviazione degli Stati Uniti e corpo dei Marines degli Stati Uniti. È evidente che la presenza militare permanente americana all’estero (quello che il Governo Usa chiama la sua “impronta”) influisce sui rapporti di forza che governano il mercato globale. Per anni è stato detto che la globalizzazione economica ha reso obsoleti gli Stati nazionali, che a governare realmente erano ora istituzioni anonime come l’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) e la Banca mondiale, che il potere centralizzato di un tempo era stato sostituito da forme più amorfe di controllo politico. Ma questa narrazione del mondo contemporaneo, sottoscritta tanto dai fautori quanto dai detrattori della globalizzazione, ignora del tutto il ruolo giocato dall’immensa rete di basi americane all’estero. È possibile considerare ben 700 strutture militari, presenti in almeno 40 paesi del mondo, una semplice nota a margine della globalizzazione, piuttosto che uno dei principali capitoli di questo fenomeno”?

L’obiettivo di questi investimenti è quello di diventare la prima potenza mondiale?
“Gli Stati Uniti sono già la prima potenza mondiale. Direi che, ormai, gli sforzi militari degli Usa sono finalizzati a non perdere questo primato. La supremazia economica degli Stati Uniti è ormai apertamente minacciata dalle nuove potenze emergenti. Ciò che accadrà nei prossimi anni dipenderà proprio dalla capacità o meno degli Usa di accomodare l’emergere di nuovi poli di potere. L’idea di un conflitto armato tra Cina e Usa, per esempio, è un’eventualità fortunatamente ancora remota. Ma, come ha detto Chalmers Johnson, ex consulente della Cia ed esperto di questioni asiatiche: “La storia del XX secolo è stato un perfetto esempio dell’incapacità delle grandi potenze come gli Stati Uniti o la Gran Bretagna di adattarsi all’emergere di nuovi poli di potere in Germania, Russia e Giappone, il che ha finito per scatenare ben due devastanti guerre mondiali. Purtroppo, sembra che una dinamica simile si stia ripetendo nel XXI secolo: non abbiamo altra scelta che adattarci all’ascesa della Cina come superpotenza, ma non si può certo dire che stiamo mostrando molto buon senso nel farlo”.

Da dove provengono i soldi per alimentare i conflitti bellici?
“La questione è estremamente complessa. Riguarda l’uso del dollaro come riserva valutaria mondiale. Nel 1971, il presidente statunitense Nixon annunciò che i dollari non erano più convertibili in oro, ponendo fine a quello che è stato chiamato il ‘gold standard’. Questo inaugurò l’avvento del dollaro come riserva mondiale, svincolato oramai dalla convertibilità con l’oro. Gli Stati stranieri si ritrovarono così tra le mani un mucchio di dollari che non potevano più cambiare in oro: potevano investirli nelle banche statunitensi, oppure in buoni del Tesoro Usa, come oggi fa la Cina. Questo sistema ha spianato la strada all’egemonia del dollaro e ha conferito un potere enorme agli Stati Uniti, in quanto sono loro a stampare i dollari e, come è noto, “colui che stampa la moneta detta le leggi”. Se si pensa al fatto che tutte le transazioni petrolifere, per esempio, vengono effettuate in dollari, si comincia a comprendere il vantaggio di cui godono gli Usa. Questo è lo stesso sistema che permette agli Stati Uniti di finanziare le sue guerre, nonostante l’enorme deficit del Paese. Vista la complessità del tema che, a quanto si dice, molti economisti faticano a comprendere appieno, mi affiderò ora alle parole di Ron Paul, candidato repubblicano alle primarie del 2008: “La nostra strapotenza militare è diventata l’unica contropartita reale alla carta dei nostri dollari. Non ci sono Paesi al mondo in grado di sfidare la nostra superiorità militare e questi non possono fare altro che accettare la banconota che noi dichiariamo di essere l’oro del XXI secolo. Benché non si usi più l’oro, il meccanismo è lo stesso: indurre oppure obbligare Paesi stranieri, mediante la propria superiorità militare e il controllo sulla stampa di moneta, a finanziare il proprio Paese (acquistando dollari). Anche se non occupiamo direttamente terre straniere per spillare oro, abbiamo sparso truppe in giro per 130 Stati del mondo. Il grande sforzo di aumentare il nostro potere nelle zone petrolifere mediorientali non è una coincidenza. A differenza del passato, non dichiariamo il possesso diretto delle risorse naturali, semplicemente continuiamo a convincerci che possiamo comprare quel che vogliamo pagando con la nostra cartamoneta. I Paesi stranieri, grazie agli alti tassi di risparmio, accumulano riserve di dollari e non mancano di restituirceli gentilmente a bassi tassi di interesse per finanziare in nostri eccessivi consumi. Sembra un gran bell’affare per tutti quanti, ma verrà il giorno in cui il dollaro, a causa del suo deprezzamento, verrà accettato un po’ meno felicemente dagli Stati stranieri, o verrà addirittura rifiutato. Questo processo ha già avuto inizio, il dollaro sta iniziando a vacillare e il peggio deve ancora venire. Ecco perché quei Paesi che provano a sfidare questo sistema, come l’Iraq, l’Iran e il Venezuela, diventano nostri obiettivi per un cambio di regime”. Paul si riferisce all’annuncio da parte di questi Paesi di voler iniziare a vendere il petrolio in valute diverse dal dollaro, con le conseguenze che abbiamo visto. Ma come sottolinea Paul, “l'uso della forza per indurre le persone ad accettare una moneta che non ha nessuna contropartita reale può funzionare solo nel breve termine”.

A Vicenza dovrebbe sorgere una base militare: cosa ne pensa la gente?
“La maggior parte dei cittadini è nettamente contraria. La nuova base ospiterà l’intera 173a brigata aviotrasportata, che ha giocato un ruolo di spicco nelle invasioni dell’Iraq e dell’Afghanistan, ma è lecito presumere che farà lo stesso in tutti gli eventuali conflitti futuri combattuti dagli Usa. La gente di Vicenza, molto semplicemente, non vuole essere complice della violenza esercitata dagli Usa in giro per il mondo, spesso in violazione della legalità internazionale, come nel caso dell’Iraq. L’arroganza con cui gli americani, con la complicità del Governo italiano, hanno imposto la base ai cittadini di Vicenza è un buon indicatore di quanto viene realmente tenuta in conto la democrazia dagli Usa e dai suoi alleati”.

Come si palesa il pacifismo di Obama, premio Nobel per la pace? Quali le sue azioni?
“Direi che non si palesa: il suo discorso di accettazione del Nobel parla da sé. In quell’occasione, Obama è stato il primo ad ammettere di essere “il comandante in capo di una nazione impegnata in ben due guerre” e che “in molti Paesi, oggi, c’è una profonda ambivalenza nei confronti delle azioni militari”, in particolare “una diffidenza istintiva nei confronti dell'America, l’unica superpotenza militare del pianeta”. Sentimento, però, del tutto ingiustificato, secondo il presidente, dal momento che “gli Stati Uniti d’America hanno contribuito per più di sessant’anni a proteggere la sicurezza globale, con il sangue dei nostri cittadini e la forza delle nostre armi. Abbiamo sopportato questo fardello non perché cerchiamo di imporre la nostra volontà, ma per interesse illuminato”. Del resto, “l’America non ha mai combattuto una guerra contro un Paese democratico e i nostri amici più stretti sono Governi che proteggono i diritti dei loro cittadini”. Obama, nell’accettare un premio che in teoria dovrebbe promuovere la causa della pace, ha esposto la teoria, a dir poco machiavellica, secondo cui “gli strumenti della guerra possono contribuire a preservare la pace”. In tale prospettiva, i soldati americani di stanza in tutto il mondo vanno visti “non come costruttori di guerra, ma come edificatori di pace”. In quell’occasione, il presidente non si è limitato a giustificare le azioni militari passate, ma ha persino esortato il mondo ad accettare quelle future: “Non riusciremo a sradicare il conflitto violento nel corso della nostra vita. Ci saranno occasioni in cui le nazioni, agendo individualmente o collettivamente, troveranno non solo necessario, ma moralmente giustificato l’uso della forza”, anche se questo vorrà dire “agire unilateralmente, se necessario, per difendere la mia nazione”. Il presidente ha concluso con l’ossimoro: “Possiamo essere consapevoli che ci sarà la guerra e, nonostante questo, continuare a lottare per la pace”.

(intervista tratta dal sito www.periodicoitalianomagazine.it)

Lascia un commento

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy