di Fabio Anibaldi
La parola illuminante l’ha detta, come spesso capita, Barbara Spinelli: «i misteri di un’opera sono nell’opera, non nell’autore» (“la Repubblica”, 17 novembre). Spinelli si riferiva al berlusconismo, difficile da valutare se ci limitiamo a zoomare sul personaggio e non invece sulla «forza, la stoffa, gli ingredienti» del suo potere. Ma le parole di Spinelli aiutano anche a collocare nel giusto sfondo la polemica tra Roberto Saviano e Roberto Maroni: Saviano che denuncia in tv la diffusione della ‘ndrangheta in Lombardia e il suo “interloquire” con la Lega, Maroni che chiede indignato il diritto di replica ad accuse che giudica infamanti per poi proporre allo scrittore, nel giorno dell’arresto del boss Iovine, di “deporre le armi”.
Non è qui in questione il valore delle persone. Saviano ha avuto il merito di scrivere un libro eccezionale, che ha venduto in tutto il mondo perché ha saputo fondere i codici dell’inchiesta con quelli della letteratura, costruendo sulle mafie un racconto convincente e nuovo, lontano sia dalle pedanterie accademiche che dalle riduzioni di folclore. Maroni è un ministro degli Interni che sul fronte della repressione mafiosa ha ottenuto risultati innegabili, peraltro riconosciuti dallo stesso Saviano.
È in questione l’idea stessa di mafia che sottostà a questa polemica e più generalmente al dibattito pubblico, un’idea che riconduce il fatto mafioso quasi interamente alla dimensione criminale. La lotta alla mafia la si fa con le operazioni di polizia, gli arresti, i processi. La si fa ripristinando la legalità, bonificando la politica e l’economia inquinate. Convinzioni sacrosante, ma che riducono fortemente l’ambito della lotta alle mafie perché non illuminano il legame tra repressione e prevenzione sociale del crimine, la convivenza delle organizzazioni criminali con un’illegalità diffusa ma non “mafiosa”, con la dilagante corruzione, con l’individualismo insofferente alle regole, con un mercato che assume a volte modi e metodi da gangster. In una parola, l’inquietante prossimità delle mafie a un mondo che non possiamo più pacificamente definire “nostro”, muovendosi in un modello culturale al cui estremo le mafie diventano un’esasperata, ma non illogica conseguenza.
Si tratta, a ben vedere, di una rimozione che ricorre ogni volta che un problema sociale viene elevato alla categoria metafisica di “male assoluto”, appannaggio di crociate e condottieri d’eccezione. Fu la stessa logica a caratterizzare, ad esempio, il dibattito pubblico sulla droga negli anni ottanta. Anche allora la questione fu ridotta alla diatriba sulle comunità terapeutiche, sui loro metodi, sulle personalità controverse che le guidavano; anche in quel caso la polemica finì per sviare lo sguardo dalle cause sociali e culturali del problema, permettendo una diffusione degli stupefacenti che oggi non trova argini, stretta com’è tra la mentalità della “normalizzazione” (e del “controllo”) e quella, non meno inefficace e ipocrita, della repressione che non distingue tra trafficante, piccolo spacciatore e consumatore. Lo stesso rischia di accadere con la lotta alla mafia, laddove si continuerà a sorvolare sul vero punto della questione: le mafie non saranno sconfitte finché non cambieranno le condizioni sociali del nostro paese, cambiamento che non può essere scaricato sulle spalle, per quanto robuste, di singoli e di simboli, ma assunto da ogni cittadino. È giusto allora ricordare Falcone, Borsellino e gli altri eroi della lotta alla mafia, ma se quella memoria non diventa impegno politico e sociale (cioè scuole, beni confiscati alle mafie, lavoro, ricerca) rischia di esaurirsi in mantra consolatorio, esorcismo di un male straordinario alla portata solo di uomini straordinari.
Quello che dice Barbara Spinelli – il “berlusconismo”, con il suo portato di degrado politico, economico, culturale, non sparirà con l’uscita di scena del suo ispiratore – vale allora anche per le mafie. Che si sconfiggono certo anche scrivendo un “Gomorra” e catturando boss come Antonio Iovine, ma prima ancora arrestando le disuguaglianze che ci fanno abitare mondi diversi se non separati in fatto di diritti, opportunità e risorse, alla faccia di quanto affermato nella nostra Costituzione, il più formidabile di tutti i testi antimafia.