di Vittorio Lussana
A 35 anni di distanza dalla morte, la riflessione di Pier Paolo Pasolini intorno a uno sviluppo economico avvenuto in forma assai accelerata attraverso una modernizzazione non accompagnata da un reale progresso della mentalità culturale e civile degli italiani appare, ancora oggi, un qualcosa di assolutamente profetico, di insuperabile, un monumento, forse un po’ estetico e tuttavia profondamente sofferto, rappresentativo di un modo di scrivere, di ragionare, di approfondire, di interpretare e denunciare temi e problemi fondato sulla ‘roccia’ della conoscenza, della Storia e persino dell’arte italiana. La sinistra di derivazione italo-marxista ha in lui – e non in altri – il proprio testimone più credibile, più coraggioso, più aperto, maggiormente sensibile: in una parola, autentico. E nessuno può riuscire a rappresentare o a incarnare, oggi, la sua visione culturale: di Pier Paolo ce n’è stato uno solo, poiché la sua esperienza, umana e letteraria, rappresenta un qualcosa di irripetibile. E’ soprattutto questo a ricordarci che egli non è più tra noi, poiché le sue opere appaiono intoccabili, intangibili nel tempo, come se fossero ancora vive la sua voce, le sue ossessioni, la sua anima. Mentre, al contrario, il vuoto di umanità che egli ha lasciato nella nostra cultura rimane un qualcosa di incolmabile. Il tema, in verità, è molto più complesso di quanto sembri, poiché si pone alla base di ciò che molti cittadini non riescono a comprendere allorquando si parla, oggi, di cultura di destra o di sinistra, di cultura laica o religiosa. Pasolini era un comunista ‘atipico’. E il suo rapporto col Pci, che non gli aveva mai perdonato la propria omosessualità e il suo gusto per lo ‘scandalo’, fu sempre assai sofferto. Per questo motivo, negli ultimi anni fu tentato dall’idea di avvicinarsi ai radicali, poiché ne intuì quella versatilità politica che ha sempre reso il movimento di Marco Pannella assolutamente libero da qualsiasi sovrastruttura di carattere ideologico, completamente svincolato dai tatticismi, dalle doppiezze politiche, dalle ipocrisie rassicuranti. Forse, non fu neanche un caso che Pasolini sia stato assassinato nel 1975, in pieno compromesso storico ‘montante’, ovvero nel momento in cui il Pci era ormai in procinto di realizzare concretamente una forzata e innaturale operazione di accordo con la Democrazia Cristiana. Personalmente, ho sempre ritenuto quell’elaborazione strategicamente sbagliata: non c’erano pericoli di derive cilene, nel nostro Paese. E la ‘favola bella’ delle due grandi forze popolari che all’improvviso si comprendevano e si mettevano d’accordo mi è sempre storicamente apparsa una suggestione, o il mero tentativo, da parte dei comunisti, di giungere al potere ‘in punta di piedi’, al fine di portare in qualche modo a compimento la strategia ‘togliattiana’ della ‘mano tesa’ ai cattolici. Ebbene, Pasolini, che non amava il ‘machiavellismo pedagogico’ di Togliatti (ce lo ricordiamo il corvo di ‘Uccellacci e uccellini’?) non era affatto propenso a un incontro strategico con i democristiani, da lui sempre descritti come un manipolo di gerarchi corrotti, interessati solamente al mantenimento del potere. Il tema che lega Pasolini alla più profonda cultura popolare italiana, invece, è un altro: quello della disperazione eroica, del non riuscire più a tollerare una società che dileggia la diversità e l’omosessualità in un volgare minestrone omologativo che pone ogni problema materiale su di un piano prioritario rispetto a ogni forma di cultura idealistica, morale, valoriale. La qual cosa rappresenta questione ben distinta, che richiama il Gramsci sociologo delle ‘barabbate’ e della religiosità popolare nell’Alto Lazio. Non si vive di solo pane. E cercare di depurare, oggi, il suo storicismo materialistico potrebbe rappresentare un fondato tentativo di riproporre, a sinistra, il solo discorso culturale che possa stare in piedi: quello dei valori e delle idee, quello di una civiltà contadina ormai completamente depauperata e sradicata alle radici, quello di riuscire a ‘strappare’ ai tradizionalisti la tradizione. In questo, Pier Paolo aveva – e continua ad avere – perfettamente ragione: “Io so”, aveva scritto, “so quello che succede in questo Paese”. Il che significava una denuncia del sottile fascismo annidato tra le pieghe di interi apparati dello Stato, voleva dire accusare il fascismo stesso di aver fagocitato fino all’autoidentificazione ogni germe e ogni forma di cultura nazionale. Non è affatto vero che egli fosse ossessionato dalla morte: Pasolini non cercava l’inferno, ma l’innocenza. Era tormentato da quest’idea, perché la riteneva una qualità e credeva fosse da ‘gaglioffi’ approfittarne, Stato o classe borghese che fosse. Non si trattava di ‘buonismo’, né di semplicismo ipocrita: era cultura, di matrice marxista, ma pur sempre altissima cultura. E oggi, con la caduta degli antichi steccati ideologici, appare inutile perdersi in critiche superate dai fatti e dalla Storia, perché solo inseguendo l’innocenza si può riuscire a ritrovare quelle armi concettuali in grado di mettere a nudo i pregiudizi, l’ignoranza, la volgarità, quel sottile classismo che porta la gente ad avere soddisfazione psicologica esclusivamente dal possesso dei beni materiali, che cronicizza una società culturalmente provinciale rispetto al resto d’Europa, un Paese ‘immobilista’ in cui solo i figli dei medici possono fare i medici, solo i figli dei giornalisti possono fare i giornalisti, solo i figli degli avvocati possono fare gli avvocati.(Laici.it)