Obama, percorso a ostacoli per la rielezione

di Paolo Guerrieri

Non è stata una sconfitta, ma una vera e propria disfatta quella subita dal Presidente Obama e dal Partito democratico nelle elezioni di mid-term. Le condizioni precarie in cui versa l’economia americana e ancor più le sue incerte prospettive hanno contribuito in misura determinante alla storica debacle dei democratici. Le sorti della presidenza di Obama sono a questo punto strettamente legate all’evoluzione dell’economia americana nei prossimi due anni e alle politiche che verranno attuate per rilanciarla. Ma una crisi economica destinata a perdurare e un Congresso profondamente diviso dal risultato elettorale rischiano di compromettere seriamente le possibilità di rielezione di Barack Obama nel 2012 .

Eccesso di cautela
Nell’elezione di Barack Obama a Presidente degli Stati Uniti l’economia aveva avuto un ruolo determinante: una larga fetta di americani lo aveva votato perché lo riteneva in grado di fronteggiare meglio del suo avversario, il senatore McCain, la drammatica crisi in cui era piombata l’economia americana. Una consistente fetta di quegli stessi elettori, dopo appena due anni, lo ha punito severamente non andando a votare o votando i candidati repubblicani al Congresso, al Senato o alla carica di Governatore.

Circa l’80 per cento di chi ha votato repubblicano ha addotto come motivazione la precaria situazione dell’economia e l’incerta condotta del governo di fronte alla disoccupazione montante. È una disfatta elettorale che trova una sua parziale giustificazione proprio nelle ambigue e, di fatto, velleitarie scelte economiche effettuate in questi due anni dall’amministrazione Obama in campi assai rilevanti, come le politiche di stimolo fiscale, la riforma sanitaria, e la regolamentazione finanziaria.

Sul primo terreno è stato varato lo scorso anno un pacchetto di stimoli fiscali del tutto inadeguato sia a fronteggiare la più grave recessione dai tempi della Grande Depressione che a sostenere la gigantesca domanda effettiva dell’economia americana. Tanto più che al suo interno non figuravano gli investimenti a lungo termine promessi in campagna elettorale ma, per lo più, trasferimenti alle varie amministrazioni locali e spese pubbliche più o meno improduttive. Di qui una crescita persistentemente al di sotto del suo potenziale e una disoccupazione, che è rimasta inchiodata a tassi a due cifre. La maggioranza degli elettori ha quindi visto nel pacchetto di stimoli varato da Obama solo uno spreco di risorse che non ha fatto che incrementare il debito pubblico.

Finanza e riforma sanitaria
Non meno deludenti i risultati della riforma sanitaria. Presentata come una storica estensione dell’intervento pubblico e della copertura assistenziale a decine di milioni di americani che ne erano sprovvisti, la riforma si è trasformata in un ginepraio ad un tempo di nuovi diritti e nuovi privilegi, con incerti saldi netti che hanno spaventato soprattutto le piccole imprese e gli anziani. Il risultato è che oggi una vasta maggioranza di americani avversa apertamente – per una molteplicità di ragioni spesso contraddittorie la riforma o ne chiede addirittura una drastica revisione.

Infine, la riforma finanziaria, approvata con grande enfasi poco prima dell’estate e dopo costosi interventi di salvataggio a favore delle grandi banche e degli istituti finanziari immobiliari, per lo più realizzati a spese dei contribuenti. Una riforma giudicata da molti autorevoli osservatori un passo avanti, per certi versi, ma assai debole nel suo complesso, perché di difficile applicazione e inadeguata a prevenire o comunque a contenere gli effetti di crisi gravi come quelle di questi ultimi anni.

In definitiva, le politiche economiche intraprese in questi due anni dall’amministrazione Obama non hanno sostanzialmente migliorato le prospettive dell’economia, e hanno finito per deludere molti, su entrambi i fronti. Conservatori e progressisti, hanno così accusato il presidente per ragioni opposte: gli uni per eccessivo interventismo, gli altri per scarso coraggio. Una somma di delusioni che ha trovato puntuale espressione nei risultati delle elezioni di mid-term.

E ora?
La disfatta elettorale è destinata a ridisegnare il contesto politico-economico della seconda parte del mandato presidenziale di Obama. Il negativo responso delle urne dovrebbe spingere il presidente a ripensare l’approccio ai problemi dell’economia. Ed in effetti, nella conferenza stampa tenuta il giorno dopo il risultato elettorale, Obama ha rivolto ai repubblicani l'invito – che è anche una sfida – a lavorare insieme a nuove iniziative per rilanciare l’economia e creare nuovi posti di lavoro.

La parola d’ordine di questa nuova fase si chiama compromesso. Che, specie su alcuni temi chiave e priorità strategiche, appare indispensabile. Le prime due scadenze importanti saranno a fine anno: si dovrà decidere sulla proroga o meno, e in che misura, dei tagli fiscali introdotti da Bush nel 2001 e nel 2003, e verrà presentato il rapporto della commissione bipartisan sulle misure per la riduzione a medio termine del deficit e del debito pubblico.

Sul primo tema i democratici propongono una conferma delle riduzioni d’imposta solo ai redditi medio-bassi (fino a 250 mila dollari annui), mentre i repubblicani sono per un rinnovo delle esenzioni a tutti indistintamente. Due le possibili soluzioni di compromesso: la fissazione di un tetto massimo di un milione di dollari di reddito per le esenzioni o il rinnovo dei benefici fiscali ai più ricchi solo per un paio di anni. Si tratterebbe, in entrambi i casi, di soluzioni costose, che limiterebbero lo spazio di manovra per la riduzione del deficit pubblico. Anche sul secondo tema la priorità è un accordo che eviti una prematura introduzione di pesanti misure di austerità fiscale, che finirebbero per deprimere la domanda e la crescita di un'economia già debole, e che rischia di cadere in una nuova fase recessiva.

Strategia del compromesso
Proponendo accordi di compromesso, Obama cercherebbe di costringere i repubblicani ad assumersi la responsabilità di alcune scelte economiche particolarmente difficili e importanti, così da poter riversare su di loro, in futuro, anche le colpe di eventuali andamenti negativi dell’economia.

È una strategia assai complessa e difficile da realizzare, ma che fu perseguita con successo da Bill Clinton a partire dal 1994, quando subì un'analoga disfatta nelle elezioni di mid-term e riuscì a rilanciarsi spostandosi al centro, il che gli permise di vincere le elezioni presidenziali del 1996.

Il problema, tuttavia, è che i repubblicani sono profondamente cambiati in questi ultimi quindici anni. Negli ultimi due anni hanno soprattutto cercato di impedire l’approvazione di ogni provvedimento legislativo – indipendentemente dai suoi contenuti – col solo intento di mettere in difficoltà il presidente e il partito democratico. Una strategia dei no che potrebbero rinnovare, affossando sul nascere ogni possibile compromesso. Tanto più che all’interno del partito repubblicano hanno ora una notevole influenza i nuovi eletti del movimento populista di destra del Tea Party.

Braccio di ferro
Con un Congresso diviso in seguito al risultato elettorale e di fronte alle difficoltà di realizzare una strategia del compromesso, l’altro possibile scenario è quello di un braccio di ferro permanente tra i due grandi partiti tale da provocare una sorta di semiparalisi di governo per il prossimo biennio. Ventiquattro mesi in cui i repubblicani continuerebbero a praticare una strategia ostruzionistica, rivelatasi fin qui elettoralmente redditizia, con l’obiettivo di consolidare presso il grande pubblico l’immagine di un Obama strenuo paladino dell’intervento pubblico che, in quanto tale, ha dilapidato senza costrutto un enorme ammontare di risorse pubbliche, addossando sulle spalle della presente generazione e di quelle future una montagna di nuovi debiti.

In un simile contesto finirebbero per prevalere gli istinti primordiali dei due partiti, con il rigetto aprioristico di alcune politiche e misure di intervento. Nel campo delle politiche fiscali, ad esempio, i democratici impedirebbero ogni taglio nel campo della sicurezza sociale o di altri programmi di spesa sociale, chiedendo che a pagare siano innanzi tutto le grandi imprese e i più ricchi. I repubblicani, dal canto loro, opporrebbero un analogo fuoco di sbarramento nei confronti di provvedimenti tesi ad aumentare le imposte di chiunque. È evidente che un braccio di ferro di questo tipo, tutto giocato in chiave elettorale, renderebbe di fatto insolubile ogni grande problema e impedirebbe politiche efficaci di rilancio dell’economia.

It’s the economy…
In questo quadro anche il riferimento alla strategia di rielezione attuata con successo da Clinton a metà degli anni novanta appare peregrino. A parte la differente personalità dei due presidenti, le condizioni economiche di oggi sono profondamente diverse da quelle di allora. A metà degli anni novanta l’economia americana era in piena fase di espansione, sorretta da formidabili incrementi di produttività. Fu proprio la forte crescita a contribuire in modo determinante alla rielezione di Bill Clinton.

Oggi, al contrario, tutto lascia prevedere che l’economia americana, schiacciata dai suoi debiti e in assenza di nuovi stimoli, crescerà poco nei prossimi due anni (1,5-2% all’anno) e molto al di sotto del suo potenziale, con una disoccupazione che è destinata a mantenersi eccezionalmente elevata. Anche l’intervento deciso in questi giorni dalla Federal Reserve, che ha immesso 600 miliardi di dollari di nuova liquidità attraverso l’acquisto di titoli pubblici (il cosiddetto quantitative easing n.2) contribuirà assai poco al rilancio dell’economia reale e dell’occupazione, data l’enorme liquidità di cui dispongono oggi le banche e tutti i grandi gruppi.

È dunque prevedibile che i cittadini americani finiranno per essere ancora più delusi dalle condizioni dell’economia e vieppiù angosciati dalle sue incerte prospettive. Aumenteranno così le probabilità che Obama possa divenire un ‘one term President’ come già accaduto a Jimmy Carter alla fine degli anni ‘70 e a Bush senior all’inizio degli anni ’90: gli elettori bocciarono entrambi a causa del pessimo andamento dell’economia.

Paolo Guerrieri è professore ordinario alla ‘Sapienza’ Università di Roma e Vice-presidente dello Iai.

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