Fabio Fazio, l’intervistatore senza domande

di Andrea Scanzi

Dove eravamo rimasti? Ah sì, alla fenomenologia. Più o meno un anno e mezzo fa, MicroMega pubblica un’analisi su Fabiofazio. Il grande intoccabile della comunicazione di centrosinistra. Il demiurgo del chiacchiericcio pensoso. Il Vincenzo Mollica apparentemente impegnato.
Fazio, nella fenomenologia, assurgeva a cantore del paraculismo d’essai: un intervistatore senza domande, con tante macchie e ancor più paure. Subito, da sinistra, veementi strali colpirono rivista e sottoscritto, usando spesso la tattica furbetta del difendere Che tempo che fa. Fingendo di non notare che nessuno, nel pezzo, aveva attaccato il format, sottolineando piuttosto come – se fosse condotto da un giornalista minimamente coraggioso – potrebbe diventare un autentico must. E non soltanto un contenitore blando di ospiti (spesso) notevoli.
Ebbene, oggi possiamo affermare che quella lunga fenomenologia, che con somma esecrabilità ripubblichiamo e rilanciamo, era sbagliata. E’ tempo del mea culpa. Con la colpevolezza supponente tipica di certo alternativismo d’accatto, non ci eravamo accorti che Fabio Fazio è davvero l’erede di Enzo Biagi. E’ davvero la propagazione catodica di Indro Montanelli. In lui convivono i geni che permisero a Frost di condurre il Presidente Nixon alla mattanza.
Fabiofazio, tutto attaccato come un’omelia laica o un rosario di ambizioni (non si sa se meschine), è il Mahatma Gandhi del Contraddittorio. L’incalzatore per antonomasia. L’anchorman libero, che non teme il potere e sfida diuturnamente la mitraglia della maggioranza.
Lo si è definitivamente capito quando, col cipiglio delle cimici rovesciate a terra sul dorso, ha intervistato (verbo a caso) domenica scorsa Sergio Marchionne. In un crescendo parossistico di domande scomode e rigurgiti giustizialisti, Fabiofazio ha dialogato per mezzora con l’ospite senza interromperlo praticamente mai. Non per pavidità, no: per educazione. Per quel suo talento di elevare la paura a cifra stilistica. Un po’ come se Luther Blissett, dopo ogni partita, avesse detto alla stampa che lui i gol li sbagliava apposta. E magari la stampa ci avrebbe pure creduto (con Fabiofazio accade).
Per prima cosa, ci si potrebbe quantomeno chiedere perché Marchionne, peraltro assai intelligentemente, ha scelto proprio Che tempo che fa per parlare in tivù. Se lo è chiesto anche Aldo Grasso sul Corriere della Sera. Lo stesso Fabiofazio, non nascondendo quel suo garbato giubilo di default, apparentemente imbarazzato, ha chiesto: «Come mai lei ha deciso di accettare il nostro invito?». Di rimando, l’amministratore delegato della Fiat ha risposto: «Non mi piace urlare, questo è uno dei pochi posti dove non si urla».
Attenzione: ogni ospite di Fabiofazio dice così. “E’ uno dei pochi posti dove non si urla”. Certo. E magari è anche uno dei pochi posti – a parte Vespa e Paragone – dove non si fanno domande. Uno dei pochi posti in cui Battiato può illudersi di essere ancora bravo. Soprattutto: uno dei pochi posti in cui più non mordi, più puoi ergerti a martire. Un bell’affare.
Dell’intervista a Marchionne hanno parlato tutti. E’ stato durante il lungo soliloquio con se stesso, come noto, che Marchionne ha esalato la celebre frase: «La Fiat potrebbe fare di più se potesse tagliare l’Italia». Tutti l’hanno ripresa. Quindi Fabiofazio ha nuovamente ragione, perché col minimo dello sforzo ha creato la notizia. In questo è inarrivabile. Potrà ancora dire che la sua è la tivù dell’educazione, dei contenuti, che lui mette a suo agio gli ospiti come nessuno (dato inoppugnabile, ma non è detto che sia un vanto).
E’ però e forse sforzo non effimero, analizzare minimamente – una volta di più – la tecnica fabiofazista. E’ molto semplice e funziona così: l’altro parla e lui annuisce. Stop. Come Carlo Pellegatti a Milan Channel, ma aggiungendoci un vago surplus di seriosità, affinché il pubblico abbia la sensazione che Fabiofazio non stia soltanto ascoltando, ma pure elucubrando, ponderando, elaborando. Da qui la posa sapientemente studiata, la schiena curva (una metafora?), la mano alla bocca, l’occhio rapito. Un po’ Leopardi e un po’ alunno secchione che alza la manina in prima fila.
Fabiofazio, per tutto il tempo, ha compitamente ascoltato Marchionne, lasciandogli esporre ogni teoria e pensiero, osservandolo con il trasporto di un uomo che ha davanti Rosario Dawson durante uno striptease. Non ha interrotto quasi mai. Giusto qualche contrappunto. Ogni tanto ha cinguettato un “118esimo posto su 139 sull’efficienza del lavoro”, ripetendo i dati sciroppati dall’ospite.
Più ancora, ha impreziosito il monologo marchionnista con piccoli controcanti rapsodici, tartagliando sulle sillabe: “Dtrmrchn, ma… ‘nsomma…sempre per…hmmm…’nsomma…per essere precisi…eeeeh…. Per quanto…’nsomma…si possa….ma che cosa ha da guadagnare…ghhhhhh…..llllll….”. Per la cronaca, “Dtrmrchn” è crasi di “Dottor Marchionne”, sobria e bolscevica maniera con cui Fabiofazio si rapportava al Megadirettoregalattico. E, sempre per la cronaca, “’nsomma” sta per “insomma”, che oltre ad essere un topos di Fabiofazio, ne è pure sostanziale recensione. Praticamente un autoscatto.
Giunto all’acme della propria coscienza critica, scandagliando gli abissi di una carriera mai prona, Fabiofazio è arrivato a chiedere a Marchionne, invero peccando di iconoclastia: “L’operaio che comunque guadagna….glielo dico senza alcun populismo perché comunque io evidentemente non me lo posso permettere no…. Che continua a guadagnare il suo salario da 1200 euro al mese…da questooooo….da questa proposta che lei fa…cioè che cosa cambia praticamente nella sua vita?”. Parole forti.
Fabiofazio ha continuato a intercalare, edulcorare, ammorbidire. Ha tartagliato quantità industriali di “’nsomma”. Ha continuato a guardare rapito il Dtrmrchn. Ha reiterato una volta di più il miracolo dei pani e del nulla. Ergendosi a paracadute di se stesso. Spargendo su tutti noi, poveri peccatori, quel suo adorabile mondo di buoni sentimenti, situazionismo à la page e permalosità di una mina.
Nel frattempo, la sua fama di conduttore inviso al potere, alimentata unicamente dalla sua fervida fantasia e dalla ancor più fervida passione idolatrante di certa stampa (peraltro insospettabile e affatto berlusconiana), è ulteriormente cresciuta. Con forza inversamente proporzionale alla realtà dei fatti. E’ accaduto con la cancellazione/non cancellazione del programma con Roberto Saviano. Lo scrittore sta difendendo il format in tutti i luoghi e in tutti i laghi (cit), mettendoci faccia e scorta. Rischiando, come sempre. E l’altro? E Fabiofazio? Non si è espresso. Non si è esposto. Anche se il programma è (sarebbe) suo. Perché prendersi la briga e non certo il gusto di difendere i propri diritti, se c’è sempre qualcuno che lo fa al tuo posto?
Di nuovo, però, come un anno e mezzo fa, così argomentando rischiamo di inciampare nei nostri odiosi impulsi savonaroliani. Nella nostra voglia di giornalisti con la schiena dritta. Nel nostro desiderio, oltremodo malsano, di scagliarci (citando Edmondo Berselli) “contro il conformismo pensoso di Fabio Fazio, contro le modeste volgarità della madamìn Littizzetto, contro tutti gli idola tribus che riempiono continuamente di applausi lo studio di Che tempo che fa, santuario e cenacolo dei ceti medi riflessivi”.
Dobbiamo stare attenti: contenerci, redimerci. Altrimenti poi viene voglia di citare Antonio Ricci, sì, l’ideatore di Striscia la notizia, quando una volta proruppe in una massima che suona più come epitaffio che come recensione: “Noi siamo diventati di sinistra perché avevamo professori di destra. Fazio è diventato di sinistra perché aveva professori di sinistra”.

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