di Elena Ciccarello
Il primo è rimasto negli annali di storia come il peggior incubo dei mafiosi del suo tempo. Il secondo è stato definito da Roberto Saviano, icona nazionale dell’antimafia, «uno dei migliori ministri dell’Interno di sempre» per la sua politica di contrasto alle cosche.
Roberto Maroni come Cesare Mori, il “verde” e il “nero”, distanti storicamente e politicamente, sono accomunati dal piglio efficientista di chi pensa che la mafia non sia stata sconfitta perché nessuno l’ha mai affrontata in modo adeguato.
Anche Roberto Maroni vuole diventare il nemico numero uno dei clan. Ma non può usare i metodi feroci del “prefetto di ferro”, che per trascinare davanti alla corte briganti e mafiosi non risparmiò neppure gli innocenti. Il ministro leghista si muove in virtù di una presunta efficienza nordista, utilizzata come grimaldello per risolvere gli atavici problemi del sud. E ad oggi le statistiche di sequestri, arresti e catture sembrano dargli ragione, così come davano ragione a Mori, segnando un calo verticale dei reati dopo il suo arrivo in Sicilia nel 1925.
Ma neanche il prefetto di ferro, con i suoi metodi liberticidi, riuscì a sconfiggere la mafia, che rinacque più forte di prima dopo la seconda guerra mondiale. Per molti storici perché fu fermato sulle soglie di quell’”Alta mafia” che lui stesso aveva individuato. Di certo perché la sua azione ebbe dei limiti che lui stesso descrisse in questi temini: «Costoro non hanno ancora capito che briganti e mafia sono due cose diverse. Noi abbiamo colpito i primi che, indubbiamente, rappresentano l’aspetto più vistoso della malvivenza siciliana, ma non il più pericoloso. Il vero colpo mortale alla mafia lo daremo quando ci sarà consentito di rastrellare non soltanto tra i fichi d’india, ma negli ambulacri delle prefetture, delle questure, dei grandi palazzi padronali e, perché no, di qualche ministero». Mori ne era consapevole. Maroni, nuovo campione dell’antimafia, lo è altrettanto?
Cesare Mori, Con la mafia ai ferri corti, Flavio Pagano Editore, 1993