"Il grande sogno sudamericano. Gli italiani d’Oltreoceano"

“La lingua italiana, lingua di ieri e lingua di oggi” è il titolo dato alle celebrazioni per il 100° anniversario del Comitato della Dante Alighieri di Rosario. Iniziate il 6 settembre scorso, le manifestazioni – un convegno, un seminario ed un congresso – proseguiranno fino a domani, 11 settembre.
“Il grande sogno sudamericano. Gli italiani d’Oltreoceano” il tema scelto da Alessandro Masi, Segretario Generale della Dante Alighieri, per commemorare l’importante anniversario del Comitato di Rosario.
“Come tutti sapete, – scrive Masi – l’Italia si sta preparando a festeggiare i 150 anni di unità nazionale. Un anniversario che non riguarda e non coinvolge soltanto i cittadini della Repubblica italiana, ma che deve molto delle sue radici a ciò che avvenne in America Latina nel corso dell’Ottocento. La storia è nota a tutti: furono migliaia gli italiani, esiliati o fuggiti dalla madrepatria, che attraversarono l’oceano per mettersi al servizio dei tanti movimenti indipendentisti presenti in Sudamerica. Brasile, Uruguay, Cile, Perù, Argentina: ogni territorio ricorda i suoi eroi italiani, spesso anonimi, che lottarono per anni fianco a fianco con chi aspirava per il proprio Paese a un futuro di libertà, democrazia e progresso. In questi anni, in cui sentiamo sempre più di frequente pronunciare la parola “Risorgimento” con sufficienza, come se si trattasse di qualcosa che non ci riguarda, dovremmo tornare con la memoria a quegli anni, a quegli uomini, capaci di unirsi in un movimento democratico che non conosceva distinzioni di razza, colore e lingua. Uomini che Giuseppe Garibaldi, il più importante e il più celebre fra loro, definiva così: “Per la sventurata condizione del suo Paese, il marinaro italiano è obbligato di cercare impiego sui legni stranieri d’ogni nazione”. Dalla Francia alle Indie voi lo trovate dovunque, e dovunque stimato e portato in palma di mano (come diciamo noi marini), perché a nessuno la cede in abilità, laboriosità e coraggio”.
“Il Perù, il Cile, e tutta la costa americana del Pacifico – prosegue Masi – è zeppa dei nostri arditi navigatori. Nel Rio della Plata, dal palischermo che vi sbarca, al piroscafo ed alla palandra che vi conducono nell’interno di quei fiumi immensi, son quasi tutti italiani. Ed il Governo italiano sa esso di avere il fiore dei nostri marinari sparsi sulla superficie del globo? Dico fiore, poiché sono veramente i migliori, coloro che insofferenti di miserie e di depredazioni si lanciano nelle avventure di vagante vita in lontane contrade». I numeri impressionano ancora oggi: nei dieci anni in cui Montevideo fu assediata dal dittatore Rosas, furono ventimila gli europei accorsi a difendere la città; di questi, almeno cinquemila erano italiani. Portavano con sé la stessa voglia di libertà degli argentini, degli uruguagi, dei brasiliani, di cui divennero amici e fratelli. Ma non si limitarono a questo. Sui libri di storia, purtroppo, le vicende umane si riducono spesso a una successione di fatti e battaglie. Ma noi sappiamo che la realtà è fatta di tante altre cose, cose magari meno altisonanti, ma in grado di penetrare in profondità nella memoria culturale e sociale dell’umanità. La vita in Sudamerica di Garibaldi può essere un buon esempio di questa tendenza. Di lui si raccontano da un secolo e mezzo il coraggio, l’abilità militare, il carisma”.
“Fu – argomenta – la prima celebrità transnazionale, conosciuta e ammirata in tutto il mondo quasi fosse un supereroe, e forse per questo, negli anni, lo spessore e la complessità della sua figura sono lentamente spariti, oscurati dalla sua leggenda. Ne è risultata per molto tempo una figura piatta, bidimensionale, fino a che studi recenti ci stanno restituendo proprio gli aspetti del suo carattere che non hanno trovato spazio nei racconti di guerra, ma che hanno legato indissolubilmente l’uomo Garibaldi all’America Latina. Fra questi fiumi sotterranei, che scorrono non visti da quasi due secoli, vorrei accennare a quello che mi è più vicino, a livello personale e professionale: l’amore di Garibaldi per la cultura e la letteratura italiana, e il terreno fertile di scambi che questo amore trovò in tutta l’America del Sud, ma in particolare qui in Argentina. Giuseppe Garibaldi era un marinaio. La sua era una cultura principalmente da autodidatta, fortemente influenzata dalla sua vita girovaga: parlava almeno quattro lingue (spagnolo, francese, portoghese e inglese). Nei suoi rapporti con i militari e con gli intellettuali dell’America Latina dimostrò una notevole apertura al confronto interculturale, che gli permise di trasmettere le sue idee e di apprendere a sua volta concetti e tecniche militari. Di lui sappiamo, dalle parole del generale Ventura Rodriguez, che si rivolgeva ai suoi uomini in italiano perfetto, “senza inflessioni genovesi né di altro dialetto”. Nel decennio in cui visse a Montevideo, tra le altre cose, insegnò matematica. Ma sappiamo anche che portava con sé, ovunque andasse, tre libri che considerava fondamentali: La Divina Commedia, I Promessi Sposi e le poesie di Ugo Foscolo. Queste predilezioni letterarie, e in particolare l’amore per Dante, ci mostrano un punto in comune con un grande argentino, pure lui a Montevideo in quegli anni: l’allora giovanissimo Bartolomé Mitre, che sarebbe diventato il primo Presidente della Repubblica argentina e che, nel corso dei suoi studi, avrebbe poi lavorato a un’imponente opera di traduzione della Commedia”.
“È noto – rileva ancora Masi – che la cultura argentina di metà Ottocento era orientata a esplorare i grandi temi della letteratura europea; in quegli anni, ogni biblioteca di Buenos Aires aveva la sua copia dell’opera di Dante, in cui i giovani intellettuali del periodo trovavano non solo stimoli culturali, ma anche forti corrispondenze con la propria vita: l’avvento della dittatura di Rosas aveva costretto molti di loro a condividere con quel poeta italiano del Trecento la condizione di esiliati, la lontananza dalla Patria e dagli affetti, il senso d’ingiustizia per un potere che aveva loro sottratto la propria vita. E così Mitre, in Uruguay, oltre alla lotta politica e militare per il proprio Paese, si trova a vivere anche un’esperienza diretta di contatto con l’Italia e con gli italiani. È lui stesso a raccontarci che a volte “sillabava il poema” dantesco sotto la guida dei proscritti italiani. È forse a questo livello che si crea un legame indissolubile fra l’America Latina e l’Italia: lottare insieme, vivere insieme da esiliati, provare gli stessi sentimenti raccontati da quel poeta d’altri tempi. In altre parole, succede a Mitre quello che stava accadendo in molte parti del continente, ad opera di tanti nostri connazionali illustri: la cultura alta d’Italia si diffonde e diventa veicolo e racconto di quelle battaglie, dei valori di democrazia e libertà, racconto soprattutto di un possibile futuro”.
“Oggi, mentre in Italia si discute sui festeggiamenti, – per Masi – sarebbe importante ricordare che l’Italia è nata, prima che sui campi di battaglia o nelle carte geografiche, nelle parole dei suoi grandi scrittori, che nei secoli diedero alle classi dominanti dei vari Stati preunitari una lingua e una cultura comune. Quello che accadde nell’Ottocento in Argentina, in Uruguay, in Brasile stava già accadendo, era già accaduto in Italia: gli Stati erano differenti, i padroni avevano nomi e volti diversi, ma la lingua era già una e aveva già un padre universalmente riconosciuto, un padre esiliato e maltrattato che, con la sua opera, aveva dato a tutti gli italiani una grammatica comune di valori e di significati. Mitre tornò a casa, guidò la nuova Argentina, si dedicò agli studi. Tradusse Dante, abbiamo detto, e nell’introduzione che accompagna l’edizione del suo lavoro dice tra l’altro: “Dante è il poeta dei poeti e l’ispiratore dei saggi e dei pensatori moderni, e allo stesso tempo è il nutrimento morale della coscienza nei suoi ideali”. Una dimostrazione del fatto che il segno lasciato dal poeta toscano in questa terra era destinato, come accade in tutto il mondo, a durare. E la mente va a Jorge Luis Borges, ma non solo a lui. Se il grande letterato infatti si è spinto a dire che la Commedia è “il miglior libro scritto dagli uomini”, un’opera “che continuiamo a leggere e che continua a sorprenderci, che durerà oltre la nostra vita, ben oltre le nostre veglie e sarà resa più ricca da ogni generazione di lettori”, sono molti gli scrittori argentini che devono all’opera dantesca una parte consistente della propria formazione. Ad esempio Victoria Ocampo racconta così il suo incontro con la Commedia: “L’impressione che causò in me è paragonabile solo a quella che sentii da bambina, la prima volta che fui trascinata e sbattuta sulla sabbia dall’impeto di un’onda. In tutto il mio essere ricevetti il battesimo di quelle parole di colore oscuro, come dice giustamente il poeta, e ne uscii barcollando”. Questo rapporto profondo, questo fiume sepolto resistente agli anni e alla storia, trova il suo letto ideale nella testimonianza degli italiani d’Argentina, che da generazioni, con affetto e impegno, presentano e sostengono la cultura italiana e le sue bellezze”.
“E non posso che concludere, a questo proposito, citando la traduzione dantesca di Angel Battistessa pubblicata negli anni Ottanta dal Comitato della “Dante” di Buenos Aires, un’opera accurata e brillante che, nelle intenzioni dell’autore, intendeva donare agli argentini “una traduzione che guidi senza accecare, che non sottragga il piacere di entrare in contatto direttamente con l’originale”. L’obiettivo è raggiunto. Con il suo lavoro, con il vostro, con le tante iniziative che insieme promuoviamo ogni anno da decenni, tutti noi facciamo in modo che quel fiume resti vivo, che accresca la sua portata e che raggiunga più persone possibile, nella convinzione che non si tratti solo di una lingua, o di parole, ma – conclude – di un mondo di valori e idee, di una ricchezza di cui nessun luogo del mondo può fare a meno”.

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