Berlino cresce del 5% e esporta a rotta di collo. Grazie a prodotti e macchinari hi-tech richiesti nei Bric

Ripresa, l'Italia prenda lezioni dalla Germania

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

I dati relativi alla ripresa economica in Germania hanno raggiunto anche la nostra Italia, forse assopita dalle ferie e dalle polemiche politiche. Dovrebbero sollecitare riflessioni e analisi approfondite anche per attingere qualche idea utile per la nostra economia.
I dati indicano un aumento del pil tedesco nel secondo trimestre di almeno il 5% su base annua e delle esportazioni del 3,8% a giugno rispetto al mese precedente.
Paragonate a quelle di giugno 2009, le esportazioni sono aumentate del 28,5%. Si stima che aumenteranno dell'11% durante l'intero 2010 e, sulla base delle commesse già pervenute, esse ritorneranno già nel 2011 ai livelli precrisi. Quando l'export tira, come noto, si incrementano sia la produzione che l'occupazione. Si ricorda in proposito che oltre il 40% del pil tedesco è legato direttamente alle esportazioni. Sarebbe miopie pensare che l'attuale crescita dell'export possa essere stata determinata in gran parte dalla momentanea caduta del valore dell'euro. L'Eurostat ha così potuto quantificare nel secondo trimestre un aumento del Pil dei 16 paesi dell'Ue intorno al 3% su base annua, grazie ai dati della Germania. Ma per l'Italia, purtroppo, nonostante qualche segnale positivo l'aumento è solo dell'1,6%. Per la Francia è ancor meno e sebbene le sue esportazioni tengano, essa ha una bilancia commerciale in negativo nel primo semestre per 24,5 miliardi di euro, mentre la Germania conta un surplus di 74,6 miliardi.
Evidentemente qualcosa dobbiamo imparare dalla Germania. Mentre le altre economie occidentali, sotto la spinta della globalizzazione più incontrollata, continuavano a delocalizzare in aree dove c'era mano d'opera a bassissimo prezzo, già nella seconda metà degli anni novanta la maggior parte delle industrie tedesche, invece, comprese che tale politica sarebbe stata fallimentare e alla fine molto costosa. Molte tornarono a casa, oppure decisero di continuare le nuove produzioni, anche aumentando il livello delle tecnologie usate, ma per rispondere soprattutto alla domanda del mercato della regione ospitante.
Nel sistema tedesco, invece, gli investimenti pubblici e privati sono stati finalizzati ad un diffusa modernizzazione tecnologica e alla produzione di macchinari di elevata qualità da utilizzare al suo interno e per l'esportazione. Inoltre ha sviluppato sinergie e cooperazioni tecnologiche e industriali avanzate con i paesi emergenti, soprattutto con quelli del Bric, con il Brasile, la Russia, l'India e la Cina. Perciò ha potuto godere di nuove commesse in questa fase di ripresa. Ricordiamo che la domanda globale si basa su due canali: quello per prodotti a basso costo e quello per prodotti di alta qualità. Oggi anche i paesi emergenti chiedono sempre più i secondi.
In molti paesi si pone ancora il problema del costo del lavoro per giustificare convenienti delocalizzazioni. In merito ci preme sottolineare che il costo del lavoro tedesco nei settori manifatturieri è molto alto. Ma costituisce soltanto il 10% dei costi totali dei prodotti e macchinari di alta tecnologia. Il resto del costo è coperto da componenti tecnologiche sofisticate e da ricerca.
La Confindustria e il sistema Italia lo sanno bene. Ma continuano ad attaccare il costo del lavoro senza concentrarsi sull'innovazione e sulla ricerca per spingere l'intera economia del paese a un livello alto di innovazione. In Germania un altro punto di forza del suo sviluppo sta proprio nel positivo rapporto con il mondo del lavoro, anche nei momenti di crisi. La rete degli Arbeitsamt, degli uffici di collocamento, è una cosa seria. Lo possiamo dire anche per conoscenza diretta. Non si abbandonano i lavoratori che perdono il posto di lavoro, ma si mantengono attivi attraverso veri corsi di aggiornamento. Non c'è niente di più antieconomico e antisociale che trattare un disoccupato o un lavoratore precario come un costo o un peso da scaricare.
Naturalmente la Germania non è il paese del bengodi, né un'isola felice in un oceano di crisi irrisolte. Infatti, nei primi sei mesi del 2010 ha aumentato il suo deficit a 42,8 miliardi di euro rispetto ai 18,7 del 2009. Probabilmente il deficit sarà intorno al 3,5% del Pil a fine anno. Ciò è dovuto in particolare agli interventi governativi per salvare le banche e per sostenere i costi della disoccupazione e del lavoro part-time. Certo il problema più grave è ancora la bolla dei titoli tossici che per oltre 800 miliardi di euro infestano le banche tedesche che hanno partecipato alle scorribande speculative immobiliari in Spagna e altrove e agli acquisti facili di titoli di stato dei paesi cosiddetti cicala. Di indubbia efficacia è comunque la recente tassa sulle banche voluta dalla cancelliera Angela Merkel per lanciare un monito alle banche a tenere i conti a posto. L'Italia, che nella Germania ha il suo primo partner commerciale, dovrebbe far tesoro di alcuni modelli d'oltralpe anche per superare le pigrizie e i conservatorismi esistenti nel nostro sistema produttivo. E non solo.

* Sottosegretario all'economia nel governo Prodi ** Economista

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