Intervento di Giuseppe Pasero.
“Perché è possibile disporre dei propri organi mediante interventi che escludono per la loro drasticità qualunque ipotesi di “ritorno” alla Vita, mentre non è possibile, in nome della Vita, partecipare attivamente alle decisioni che riguardano la propria Morte?
È questa la domanda con cui abbiamo chiuso l’articolo precedente (1) relativo al Testamento biologico ed evidentemente questa domanda apre a sua volta altri interrogativi sulla definizione da adottare per il concetto di Morte; per stabilire, ad esempio, se la perdita irreversibile della coscienza possa essere riconosciuto a tutti gli effetti, qualora richiesto attraverso un testamento biologico formalizzato, come la condizione che legittima la cessazione di ogni forma di assistenza meccanica alle funzioni vitali. Ma quando si può realisticamente affermare che quella condizione si sia effettivamente verificata oltre ogni ragionevole dubbio? Gli orientamenti più recenti tendono ad identificare la Morte dell’individuo più con la cessazione delle attività connesse alla corteccia cerebrale, sede dei processi sensitivi, cognitivi, di quelli analitici e pianificatori oltre che dei movimenti intenzionali e di quello che potremmo definire il software da cui dipendono tutte le nostre attività cerebrali più evolute, che non con la fine del tronco cerebrale che regola le funzioni basilari, (riflessi, controllo di molti visceri, centri respiratori ecc.); l’hardware, per mantenere il paragone tratto dall’elettronica, del nostro organismo. Se nel caso del trapianto di organi, non solo il mondo scientifico e quello religioso ma anche quello rappresentato dalla maggior parte dei comuni cittadini ha convenuto di riconoscersi in un protocollo che pone in posizione centrale lo stato di coma del quinto grado o coma depassé, crediamo sia possibile giungere ad un protocollo altrettanto affidabile su cui fondare i ragionamenti ed i comportamenti connessi all’autodeterminazione in fase terminale. Come già detto, il mio contributo a questo specifico argomento costituisce il tema della mia prossima nota. Quello che mi preme sottolineare qui è l’importanza che deve essere attribuita alla definizione di parametri certi e condivisi, che garantiscano prima di tutto la comprensione dei fenomeni di cui si sta discutendo e delle condizioni in cui determinati comportamenti diventano leciti. La trasformazione del living will in un documento di valore riconosciuto incontrovertibilmente dalle leggi della Repubblica – cosa che non sembra in alcun modo procedere speditamente verso una soluzione certa – la designazione altrettanto certa del personale medico, delle strutture e delle modalità in cui il rispetto delle volontà individuali possa essere portato serenamente a compimento secondo quanto espresso liberamente ed in modo informato dalla persona coinvolta, tutto questo a mio parere darebbe una risposta soddisfacente sia alle attese di sicurezza di coloro che sono favorevoli a questa prospettiva, sia a quelle di altri le sono ostili. Credo, infatti, che questa resistenza sia in larga misura alimentata dal perdurare di una condizione d’incertezza, dal timore che decisioni tanto importanti possano essere prese “al di sopra della propria testa” e che, soprattutto, possano più o meno subdolamente trasformarsi in automatismi incontrollabili. Sulla base di queste ulteriori considerazioni, penso si possa avanzare qualche suggerimento ulteriore finalizzato ad accelerare la trasformazione della legislazione italiana in merito al riconoscimento del living will.
QUALCHE SINTETICA NOTA STORICA
Ci sono voluti anni, anzi decenni, per arrivare ad una nuova normativa che regolamentasse la prassi dei trapianti d’organo. Il 31 marzo 1999 il Senato ha dato la sua approvazione al testo di legge recante il titolo Disposizioni in materia di prelievi e di trapianti di organi e di tessuti. Prima dell’entrata in vigore di tale legge, la donazione di organi era regolamentata da una vecchia legge, la L 644/75. Tale legge non chiedeva in realtà il consenso alla donazione ai familiari, cosa però invalidata dalla prassi; essa stabiliva che il prelievo era vietato quando in vita il soggetto avesse esplicitamente negato il proprio assenso, e aggiungeva che il prelievo era inoltre vietato quando il coniuge, o il figlio o il genitore (a seconda dei casi) manifestassero opposizione scritta al prelievo, la legge 644/75 richiedeva non già la raccolta del consenso, quanto l’obbligo di rispettare un dissenso esplicito alla donazione. [La L. 644/1975 ha disciplinato finora i prelievi di parti di cadavere a scopo di trapianto terapeutico. All’art. 6 si legge che il prelievo da cadavere non sottoposto a riscontro diagnostico o ad operazioni autoptiche ordinate dall’autorità giudiziaria, è vietato quando in vita il soggetto abbia esplicitamente negato il proprio assenso. Il prelievo è altresì vietato quando, non ricorrendo l’ipotesi di cui al comma precedente, intervenga da parte del coniuge non separato o, in mancanza, dei figli se di età non inferiore a 18 anni o, in mancanza di questi ultimi, dei genitori, in seguito a formale proposta del sanitario responsabile delle operazioni di prelievo, opposizione scritta entro il termine previsto….] Perciò, in assenza di parere contrario, si sarebbe potuto procedere al prelievo. Si vede dunque come non per legge i medici abbiano cercato il consenso dei parenti, bensì in forza di un rispetto nei loro confronti e per l’importanza che ha la famiglia nella nostra tradizione culturale. In generale, si è ritenuto di far valere alcuni principi fondamentali: il principio di tutela della vita del donatore, il principio del rispetto della sua autonomia, ossia della sua libertà di autodeterminarsi, il principio del rispetto della volontà dei familiari, in base al fatto che questi dovrebbero essere i migliori testimoni della volontà del potenziale donatore, il valore della solidarietà, per cui la donazione degli organi deve essere atto di reale donazione di sé, espressione di vera disponibilità nei confronti degli altri, al punto da decidere dell’utilizzo dei propri organi dopo la morte. Ora, dopo varie vicende (alcuni in passato sono persino giunti a proporre la possibilità del prelievo sempre e comunque, in assenza o anche contro la volontà dei familiari, per ovviare alla scarsità degli organi e per aggirare il problema dell’informazione), la nuova legge si pronuncia per il cosiddetto silenzio assenso. In altre parole, tutti i cittadini sono tenuti, entro un certo periodo dall’entrata in vigore della legge, a dichiarare la propria volontà di donare o non donare gli organi dopo la morte; qualora non vi sia alcuna dichiarazione, il cittadino sarà considerato donatore (in ciò consiste il principio del silenzio-assenso). Più precisamente, all’art. 4 si legge che i cittadini sono informati che la mancata dichiarazione di volontà è considerata quale assenso alla donazione. In tutti i casi, i soggetti cui non sia stata notificata la richiesta di manifestazione della propria volontà in ordine alla donazione di organi e di tessuti […] sono considerati non donatori (art. 4 comma 2). E' chiaro che, dietro a questo nuovo modo di impostare la raccolta del consenso, peraltro necessario a garanzia dell’autonomia del singolo, vi sia la presa d’atto di come l’assenza di donazioni si colleghi evidentemente anche al rifiuto di donare, laddove si teme che l’individuo da cui si preleva l’organo non sia ancora cadavere bensì persona in vita, ancorché morente. E, ancora una volta, grande responsabilità è attribuita agli enti preposti all’informazione o, come qui si dice, alla loro azione di notifica: ed è necessario vigilare affinché si tratti di vera e propria informazione, e non solo di un avviso privo di spiegazioni accurate su cui i Cittadini possano fondare la propria consapevole decisione.
Giuseppe Pasero
Libertà ed Eguaglianza