Qualche settimana fa il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana (CEI), ha ritenuto opportuno richiamare l’attenzione dei poteri pubblici sulla gravità della situazione demografica italiana e sollecitare rimedi adeguati come l’introduzione del quoziente familiare.
Il richiamo del cardinale era motivato dal perdurare della denatalità che sta portando l’Italia «verso un lento suicidio demografico: oltre il cinquanta per cento delle famiglie oggi è senza figli e, tra quelle che ne hanno, quasi la metà ne contemplano uno solo, il resto due, e solamente il 5,1 delle famiglie ha tre o più di tre figli».
Il cardinale Bagnasco sembra preoccupato oltre che della denatalità anche della perdita di valore (religioso) della famiglia «fondata su quel bene inalterabile che è il matrimonio tra un uomo e una donna, che va difeso (…) e continuamente preservato quale crogiuolo di energia morale».
Ovviamente, niente da eccepire sul significato (religioso) del matrimonio e sul concetto di «famiglia» di Monsignor Bagnasco. Quanto invece a considerare un «suicidio demografico» il fatto che in Italia, all’interno della famiglia, nascano meno figli di una volta mi sembra esagerato. Tanto più che i dati statistici degli ultimi anni parlano di una ripresa della natalità. Ma anche a prescindere da questo segnale incoraggiante, andrebbe ricordato che l’equilibrio demografico in un grande Paese non è solo garantito dalla prole che nasce nelle famiglie fondate sul matrimonio. Esistono infatti altri tipi di «famiglie» di fatto che contribuiscono anch’esse all’equilibrio demografico. Si pensi ad esempio alle coppie non sposate con figli o alle famiglie monoparentali. Soprattutto in un Paese d’immigrazione com’è divenuta ormai l’Italia, l’equilibrio demografico è anche dato dall’apporto considerevole delle giovani immigrate, generalmente più prolifiche delle autoctone. Inoltre, storicamente, l’andamento della natalità è stato altalenante.
In generale, una società fondamentalmente sana e produttiva trova sempre la maniera di rigenerarsi. E’ stato, ad esempio, il caso della Svizzera, cronicamente confrontata con un basso tasso di natalità eppure oggi un Paese in crescita non solo economicamente ma anche demograficamente, proprio grazie all’immigrazione.
In questo Paese, tra il 1900 e il 1940 il tasso di natalità degli svizzeri era sceso sotto il 15%. Soprattutto dopo il 1920 era crollato drammaticamente. Tra il 1900 e il 1960 la classe d’età da 0 a 15 anni era scesa dal 40,55% al 31,3%, mentre era quasi raddoppiata dal 5,8% al 10,4% quella delle persone di 65 e più anni. Anche allora (1938) si parlò di rischio di «suicidio collettivo».
Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, la situazione della denatalità in Svizzera divenne ancor più preoccupante, perché sembrava mettere a rischio il futuro stesso dell’esercito e dello stato sociale. Il consigliere federale Philippe Etter, cattolico molto conservatore, definì la denatalità come un «problema nazionale» (1938). L’esposizione nazionale del 1939 divenne un’occasione straordinaria per richiamare l’attenzione del popolo svizzero sul rischio di un «suicidio collettivo». Attraverso, conferenze, discorsi, opuscoli e la radio, fu diffuso il messaggio che un popolo senza bambini era votato alla morte, che la sorgente della vita si esauriva, soprattutto nelle città, che era necessaria una «offensiva della vita» affinché la Svizzera non sparisse.
A differenza delle buone maniere di Monsignor Bagnasco, che fa appello soprattutto «ai responsabili della cosa pubblica» perché mettano in essere politiche familiari adeguate e rispettose delle donne lavoratrici, in quegli anni di guerra, soprattutto negli ambienti cattolici si cercava di addossare le responsabilità dirette della denatalità in Svizzera non tanto allo Stato quanto piuttosto ai cittadini… irresponsabili. Alle donne soprattutto veniva rimproverato di ambire a una vita comoda e lussuosa, di preferire allo spirito materno lo spirito del tempo che mirava all’emancipazione della donna. Non si perdeva perciò occasione di ricordare l’ideale della donna svizzera e di esaltarne il ruolo come «casalinga, madre e moglie virtuosa». Agli uomini, allora ben occupati con la guerra, più che muovere rimproveri, si preferiva generalmente ricordare la loro forza procreativa!
Poiché la denatalità continuava, continuavano anche gli appelli per una «restaurazione della famiglia». Nel 1941, ancora il consigliere federale Philippe Etter andava ripetendo che «la denatalità è la conseguenza d’una convinzione troppo individualista e materialista della vita, che noi confondiamo troppo spesso con il progresso e la civilizzazione. Un popolo virile dev’esserlo nel senso pieno del termine, virile anche là dove virilità significa potenza creativa e sacra».
Altri tempi? Certamente sì e possiamo rallegrarcene. In fondo, la Svizzera è scampata bene da quella «morte sorniona» che sembrava minacciarla alla fine degli anni Trenta. E nessuno sembra dolersi che a contribuire al cambiamento siano stati anche gli stranieri, gli immigrati. Quanto all’Italia, credo che ne uscirà bene. In fondo, l’istinto della sopravvivenza è fondamentale tanto negli individui quanto nei gruppi sociali. E forse i bambini torneranno ad essere un bel dono di Dio!
Giovanni Longu