In questi mesi mi torna spesso in mente il mio vecchio amico Erdoes, che credeva a un Principio Speranza impossibile da smarrire.
di Andrea Ermano
“Non sono mai stati così scatenati”, mi disse una volta il mio vecchio amico, Ernst Erdoes, ammiccando ai piani alti delle banche con un guizzo negli occhi.
Girando per Zurigo durante la pausa di mezzogiorno, eravamo finiti a Paradeplatz, la piazzetta affari della capitale economica elvetica, piazzetta lastricata, sotto il porfido, d'immani forzieri.
Sarà stato l'inizio dell'estate del 1993 e fu quello l'unico guizzo negli occhi di Ernst Erdoes che io ricordi. Del Novecento europeo aveva visto, nel bene e nel male, quel che c'era da vedere. Era cugino del grande matematico Paul Erdoes. Era discepolo del filosofo spartachista Karl Korsch. Era nato a Vienna nel 1919. Era riparato in Svizzera nel 1938 dopo l'annessione hitleriana dell'Austria. Nel 1944 la madre Olga, rimasta a Vienna, era stata deportata ad Auschwitz, e lì gassata. Lui aveva 25 anni.
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Non ricordo alcuna questione politica, storica, letteraria o scientifica di un certo rilievo, cui Ernst Erdoes non si fosse dedicato in modo men che approfondito.
Le nostre ricerche di allora vertevano spesso intorno al concetto di “schiavitù” in Aristotele. E persino in quell'ambito, di cui io mi occupavo in modo specialistico, lui dimostrava conoscenze fuori dal comune.
“Non sono mai stati così scatenati”, sottolineò con forza, sempre riferendosi ai ragazzi della finanza che nel frattempo avevano iniziato ad affollare la piazzetta degli affari con le loro giacche firmate e le facce ancora “acqua e sapone”, ma già un poco improsciuttite.
Alle mie rimostranze lui si oppose fermamente. E disse parole perentorie, parole che, dopo il crollo del comunismo sovietico, assumevano per me un sapore d'inattualità totale. Roba da “giovani turchi” psiuppini degli ultimi anni Quaranta, pensavo. O giù di lì.
Per trovare un acquietamento sul tema e poter riprendere il filo del nostro discorso aristotelico, tentai pazientemente di spiegargli che, dopo la caduta del Muro, un ridispiegamento della sinistra democratica europea poteva ormai avere luogo soltanto su posizioni “liberal soft” (oggi si direbbe “democratico-moderate”).
No!
Fu inesorabile, inamovibile, tetragono. Mi si piazzò lì, immobile come un mulo del quarto reggimento alpini, davanti a una delle maggiori cattedrali creditizie svizzere. E con sguardo iniettato di autentica incazzatura ebraico-socialista-mitteleuropea, scandì, lento, a voce bassa, in tono definitivo: “Mi creda, non sono mai stati così scatenati”.
Fissazione narcisista di un vecchio bastian contrario? O prime avvisaglie di arteriosclerosi?
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Qualche anno dopo, il 6 marzo del 1998, Ernst Erdoes si spense quasi ottuagenario, a causa di una crisi cardiaca. Se ne andò nel sonno e senza sofferenze, dissero i medici. Pochi giorni prima aveva finito di scrivere la sua dissertazione dottorale, che apparirà negli Scritti postumi (“Schriften aus dem Nachlass”) raccolti e pubblicati da Leopold Kohn e Peter A. Schmid con una prefazione di Helmut Holzhey.
Il volume è uscito a Basilea nel 2004, e contiene alcuni saggi preziosi e molto intriganti (per i cultori di filosofia eccone i temi: la proprietà e il lavoro nel pensiero illuminista e in Kant, la filosofia hegeliana del diritto, la schiavitù e la democrazia in Aristotele, l'ebraismo in Spinoza, la questione del male radicale nel giudaismo e nella gnosi, la kabbalah secondo Gerschom Scholem).
Leopold Kohn, in epigrafe al suo Ernst Erdoes – un breve compendio biografico, ha avuto la bontà di citare uno spezzone di colloquio tra Ernst e me apparso da qualche parte all'epoca dei discorsi di cui dicevo sopra.
Sul Principio Speranza Erdoes aveva detto: “Il principio soggettivo della Speranza sta nella coscienza morale dell'uomo per cui la sua destinazione non è lasciarsi prendere a calci. Un principio impossibile da smarrire”.
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Penso molto a Ernst Erdoes in questi mesi. C'era e c'è effettivamente molto scatenamento sotto il sole, come dimostra l'atteggiamento cinico secondo cui alcuni paesi mediterranei a rischio d'insolvenza finanziaria possono essere spinti alla bancarotta.
A questi paesi mediterranei (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) i brockers si riferiscono con l'acronimo “P.I.G.S.”, che in inglese significa “porci” o “maiali”. L'espressione vi sembra arrogante? Ma via. Si tratta della parola d'ordine di una operazione speculativa, ad alta energia criminale secondo alcuni, perfettamente legittima secondo altri.
Essa consisterebbe nel giocare sui mercati finanziari internazionali contro i predetti paesi. Che non stanno peggio di tanti altri, ma vengono azzannati allo scopo di indurne il crac, nell'intendimento abbastanza esplicito di provocare un “effetto domino” e quindi in ultima analisi il crollo della moneta unica. Cioè la fine dell'Eurozona. Ossia una crisi geopolitica di vastissime proporzioni.
Inutile dire che, dal caos preannunciato in seguito a tutto ciò, qualcuno si attende di lucrare enormi guadagni in termini sia di danaro sia di potere.
Sui giornali, taluni commentatori economici condannano un tanto al chilo “l'ipocrisia” di chi si lamenta del pensiero unico capitalistico o dell'arroganza di certe oligarchie finanziarie. Non sia mai detto… la colpa è sempre degli altri, e in questo caso ricade su intere popolazioni che sarebbero dedite al vizio, Pigre, Indolenti, Gaudenti, Spendaccione: P.I.G.S.
Allucinante?
Il mio vecchio amico Ernst Erdoes aveva già visto cose analoghe negli anni Trenta.
E me lo disse pure.
Mi disse che con i nostri flebili riformismi democratico-moderati non saremmo arrivati da nessuna parte. E infatti, in vent'anni di “Weimar al rallentatore”, siamo approdati al nulla virgola zero.
Secondo il mio vecchio amico Ernst Erdoes ci voleva invece un riformismo rivoluzionario, ci sarebbe voluto quel socialismo che il gran padre Turati definiva “rivoluzionario perché riformista e riformista perché rivoluzionario”.