Ricordi di un emigrato dei nostri tempi

Introduzione

Dott.ssa. Maria Cristina Ruffini in Lasagna

Consigliere dell’Emigrazione della Regione Marche

Portavoce del Forum delle Donne Marchigiane in Argentina

I brevi racconti che formano questo libro sono una sorta di pretesto di un emigrato

italiano in Sud America, l’occasione per pensar-si o, per meglio dire, scriver-

si, in vecchiaia.

L’autore forse per molti è uno sconosciuto che vive, ignorato dai suoi connazionali,

nel cuore della pampa argentina. In realtà si tratta di un Nome della Storia

dell’Agricoltura: è stato lui, infatti, che ha portato alla rottura con le pratiche

agricole del XX secolo, introducendo in Argentina in metodo della “semina

diretta”, cosa che ha portato ad una rivoluzione nel mondo dell’agricoltura.

Di fronte alla difficoltà che solitamente hanno molti emigrati di parlare del proprio

passato per il dolore che questo causa loro, il dott. Marcello Fagioli ha il

coraggio di mostrare forme di avvicinamento alla sua stessa vita, riflettendo – nel

contempo – attorno a se stesso, vale a dire attorno a noi stessi che condividiamo

con lui la sua umanità e il fatto che, in qualche modo, siamo tutti migranti.

Cosa pensa un uomo di scienza della sua vita, vissuta per la maggior parte degli

anni lontano dalla sua terra natale? Ricorre ai principi e alle leggi della fisica e

della chimica per esprimersi? Che accade quando desidera spiegare ciò che era,

ciò che è e ciò che sarà? Nella catena della sua memoria, come si allacciano gli

eventi significativi della sua vita e come sono questi vincolati con tutto il processo

migratorio che lo ha portato ad allontanarsi dalla sua terra?

Questo lavoro non è, e non vuole essere, una ricerca scientifica; si tratta piuttosto

di un esercizio etico ed estetico: partendo da ciò che è, l’autore lascia volare i suoi

ricordi, intenerendosi di fronte al ciò che le sue stesse parole fanno nascere in lui.

Vi invito quindi a condividere la bellezza e la tragedia di questi ritagli di vita,

attraverso i quali una persona decide di svelare se stesso di fronte all’altro.

Fagioli è riuscito a vincere la resistenza a raccontarsi che caratterizza molti

migranti e, attraverso i suoi racconti, ci rivela la sua anima, le sue allegrie, le sue

sofferenze, le sue paure, le sue speranze.

Questo lavoro recupera una pratica che il mondo di oggi ha perduto, quella del

narratore che decide di abbandonare il silenzio per condividere e farci vibrare.

L’autore ha sentito nel suo mondo interiore esplodere la necessità di farsi ascoltare

e, in questo esercizio retrospettivo fa sì che ai suoi ricordi si mescolino elementi

cotruiti nello spazio simbolico e sociale della sua patria. È per questo

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motivo che ha scelto la sua terra e le Marche per pubblicare il suo libro in cui

sono presenti fenomeni sociali che hanno segnato la vita italiana.

La realtà sudamericana è stata uno spazio di differenza e di esclusione per quest’uomo

che, in silenzio, si è dedicato al lavoro; ora, terminato il suo duro compito

di ricercatore, torna con lo sguardo al passato e scrive racconti delicati, profondi,

sinceri e a volte sorprendenti, come del resto lui stesso è sorprendente.

Quale discendente di marchigiani mi sento in debito verso questo emigrato

marchigiano e mi meraviglio nel profondo ascoltando, questo Altro, sempre

diverso e straniero nel mio paese, che ha pronunciato il suo discorso così lontano

dalla sua patria. Tutto questo richiede il nostro silenzio, non solo esteriore,

ma soprattutto interiore ove nasce il sentimento di accoglienza, rispetto e

reciprocità, per ascoltarlo attentamente in tutta la sua singolare dignità.

Qualcuno, non so chi né quando, ha detto:

“Ogni essere umano è una lezione per un altro,

Un testo aperto alla possibilità

Di inventare nuove realtà”

Così è Marcello Fagioli, mio suocero, il ricercatore scientifico che, vivendo

lontano dal suo paese, ha dato un enorme contributo all’umanità e che ora ha

deciso di regalarci l’occasione di ascoltarlo e, contemporaneamente, di ascolre

noi stessi e gli altri.

L’impronta di questo scrittore resta nei suoi racconti, come quella del ceramista

resta nei suoi vasi di terracotta. Tuttavia, contemporaneamente, gli offre la

possibilità di “cominciare di nuovo” da questo posto, così lontano dal suo paese

d’origine. Attraverso l’azione del raccontare ha infatti la possibilità, da un

lato, di tornare ad essere e, dall’altro, di essere domani.

Questa capacità attiva, questo impulso originale in un anziano, gli permette di

guardare indietro e contemporaneamente si ripromette di ri-iniziare. Tutto

questo merita tutta la mia riconoscenza e la mia ammirazione.

Per finire, voglio citare Eduardo Galeano che, come sempre, esprime il mio

stesso sentire quando scrive:

“Non conosco piacere maggiore dell’allegria di riconoscermi negli altri.

Forse questa è, per me, l’unica immortalità degna di rispetto.

Riconoscermi nella mia patria e nel mio tempo, e anche riconoscermi

nelle donne e negli uomini, nati in altre terre,

e che sono miei contemporanei nati in altri tempi.

Le mappe dell’anima non hanno frontiere”

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EMIGRANTI

Mi imbarcai a Genova, nel 1963. Destinazione Argentina.

Mi aspettava un lungo viaggio in mare. Solo. I miei erano partiti prima.

Un transatlantico è una metropoli. Tante persone e tanto diverse.

C’era un cameriere italiano che si mostrava sempre gentile. Più del dovuto. Era

evidente che voleva essere considerato alla pari.

Ma io, poco più di un ragazzo, con una laurea e tante speranze, non ero molto

disponibile.

Poi c’era un giovane, evidentemente di una classe sociale alta, che portava con

sé un paio di sci.

– Sci d’estate! Per sciare dove? –

Forse era un professionista e seguiva la neve dove si trovava, nei vari continenti.

Lui viaggiava in prima classe. Non lo conobbi mai personalmente.

C‘era un medico che aveva trascorso una vacanza in Europa, in compagnia di

un amico commerciante. Era peronista, ma il suo amico no. E si criticavano a

vicenda in ogni occasione, per le loro idee politiche.

Il medico era il maestro. Il commerciante l’allievo. Ma non credo che quest’ultimo

imparasse molto.

Una volta infatti, chiese al medico: “cos’è la vita?”

E la risposta fu: “è movimento”

“Ma anche la nave si muove” disse il commerciante… e si interruppe per non

creare una situazione sgradevole. Poi raccontò che viveva a Mar del Plata, una

città di 500.000 abitanti, che si triplicavano nella stagione estiva.

La “città più bella del mondo”, diceva sempre.

Il medico era un mezzo filosofo. Faceva discorsi e domande strane.

Diceva che i tedeschi avevano avuto grandi filosofi. Kant era uno di questi.

Non per il suo sistema filosofico, ma solo per una affermazione: il nostro cervello

funziona secondo una categoria: la categoria causa-effetto.

Questo è il nostro modo d’intendere. Questo è il motore dei nostri ragionamenti.

Nel motore delle auto i pistoni, con il loro moto di va e vieni, mettono in movimento

l’automobile. L’equivalente dei pistoni, in noi, è la categoria causa-effetto.

Noi vediamo tutto quanto accade nell’universo secondo questa categoria.

Se mettessimo ad un piccione, appena uscito dall’uovo, un paio d’occhiali verdi,

il piccione crescerebbe e, diventato adulto, volando intorno al mondo, lo vedrebbe

tutto verde e direbbe che il nostro mondo è verde. Quella sarebbe la sua verità.

Chiaro, per scoprire questa verità, bisogna leggere molti libri con frasi alla

tedesca, tanto lunghe che, quando si è alla metà di un paragrafo, si dimentica il

soggetto. Ma, diceva lui, vale la pena.

Poi c’erano due vecchietti. Lui alto e magro. Lei piccolina. Ambedue con i

capelli splendidamente candidi. Tornavano in Argentina perché lui era un falegname

pensionato. Da vecchi, erano ritornati al loro paese e vivevano tranquilli.

Ma negli ultimi anni il cambio della moneta era diminuito molto ed ora, con

11.000 lire al mese, era impossibile vivere in Italia.

Tornavano in Argentina per vedere come si poteva vivere là. Alla fin fine non

rimanevano loro molti anni.

Fin dall’inizio del viaggio, avevo visto un uomo e una donna che si sedevano

sempre in posti isolati e seminascosti. Avevano un termos ed uno strano recipiente

simile ad una tazza da caffellatte. Versavano in continuazione il contenuto

del termos nella tazza e lo sorbivano. E sempre così, per ore. Pensai

subito che fossero drogati.

Mi meravigliava il fatto che lo facessero in presenza d’estranei.

Anni dopo un amico mi spiegò che in Uruguay bevono il “mate” così, in continuazione.

Il “mate” è una infusione di foglie in acqua calda. Una eredità degli

indios Guaraní, credo.

Mi disse anche che, in una sfilata militare, in occasione di chi sa quale ricorrenza,

aveva visto un soldato a cavallo, sorbire il mate. Strane abitudini!

Sul transatlantico non mancava un gruppo di persone che giocava accanitamente

al “truco”, un gioco di carte che non ho mai appreso. Uno di loro si

vantava di vivere, a Buenos Aires, con gli interessi di un suo piccolo capitale

che prestava ad amici e conoscenti. Io credevo che questo si chiamasse usura e

che non fosse una cosa di cui vantarsi.

Una signora di mezza età, tornava in Argentina per vendere il suo albergo e

tornare in Italia a comprare una piccola pensione& Nella decade del ’60 l’economia

italiana andava molto bene.

Un italiano, uno dei tanti turisti di ritorno, diceva di possedere una “estancia”

nella provincia di Santa Fe, vicino al fiume Paraná. Nella regione si diceva che

Garibaldi, in fuga sul fiume, fosse affondato proprio in quella zona e che, nel

profondo del fiume, c’era ancora la sua nave. Lui voleva trovarla. Aveva provato

già varie volte, ma inutilmente.

Ora, al suo ritorno, avrebbe tentato ancora e, sperava, con successo. Diamine,

suo nonno era italiano e lui avrebbe fatto vedere ai “criollos” di che pasta son

fatti gli italiani.

Tanta gente, tante speranze!

Ora, naturalmente, dopo più di 40 anni, il cameriere sarà morto. Il giovane

sciatore sarà probabilmente molto vecchio; chissà quante gare avrà vinto!

Il medico filosofo ed il commerciante saranno morti, portando con loro dubbi,

domande e l’angoscia del pensiero della morte.

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I due uruguaiani, lui e lei, riposeranno senza più sentire la necessità di bere “mate”.

Il falegname, anziano pensionato e la sua compagna, ambedue con capelli così

candidi, riposeranno finalmente senza la preoccupazione della svalutazione

della moneta.

E così pure l’innamorato di Garibaldi e l’usuraio che si vantava d’esserlo e tutti

gli altri.

“Speranze… speranze, ameni inganni”

Non ricordo chi ha scritto questo verso, ma è troppo bello per essere mio.

LA “PAPERA” D’UN EMIGRATO CHE FECE RIDERE

TUTTA UNA UDIENZA, ALLA FINE D’UNA

CONFERENZA SERIA E MOLTO TECNICA

Come è noto, in italiano, con la parola “responso” si indica la risposta d’un

oracolo. Ben diverso è il suo significato nella lingua spagnola. Lo vedremo poi

e vedremo come una “papera” d’un recente emigrato, che aveva bisogno d’un

dizionario per non dire spropositi, fu motivo di risa alla fine di una conferenza

molto tecnica e seria.

Ero appena arrivato alla “Stazione Sperimentale Agricola” per iniziare il mio

nuovo lavoro.

Era consuetudine in quei tempi, all’inizio del 1960, riunire tutto il personale

tecnico in un grande salone, con un enorme tavolo ovale, il sabato pomeriggio,

per parlare dei problemi del giorno o ascoltare un invitato o un nuovo venuto,

come nel mio caso.

Ed io parlai e parlai con sicurezza, trattandosi d’un argomento che conoscevo

molto bene. Di fatto i problemi della fertilizzazione delle colture sono ben

conosciuti in Italia. Ma ciò che è valido per un paese può non esserlo per un

altro. Altre terre, altri climi ed altri cultivar.

Si trattava di fertilizzanti. C’era un progetto di fertilizzazione del mais già iniziato.

Alla fine dell’esposizione, parlai di ciò che avremmo fatto nei campi sperimentali

della regione.

Il risultato delle esperienze era difficilmente prevedibile e conclusi il discorso

dicendo: – vedremo quale sarà il “responso” della sperimentazione. –

Tutta l’udienza scoppiò in una risata sonora e prolungata. Io non mi rendevo

conto del motivo, dato che ero stato ascoltato con grande attenzione per tutto

il tempo. Chiesi spiegazioni al mio vicino, ma questi continuava a ridere senza

freno e non mi rispondeva.

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Solo poco dopo, in un vocabolario, fui in grado di leggere che per “responso”,

nella lingua spagnola, s’intendono “versetti e preci” che si recitano in presenza

dei defunti.

Al momento della”papera” furono varie le persone che mi chiesero cosa avevo

voluto dire con ”responso” ed io non ebbi altra alternativa che fare un

sorriso idiota.

RICORDI DI GUERRA

Eravamo in guerra. La seconda guerra mondiale, del 1939. Del 1940 per l’ Italia.

Avevo undici anni. Mio padre era medico1 in una cittadina delle Marche e

di quando in quando riceveva un regalo, spesso in cambio del pagamento della

visita: una scatola di tabacco turco, biondo e profumato, una bottiglia di

cognac, una di champagne. Tutte cose introvabili in tempo di guerra per i

comuni mortali e quindi preziose.

In quei tempi si usava bere un bicchierino di cognac dopo pranzo, nei giorni di

festa. Solo alla fine della guerra, con l’arrivo delle truppe americane, l’whisky

sarebbe diventato popolare. Lo champagne si beveva nelle grandi feste: a Natale,

a Pasqua e in occasione dei compleanni.

Io presi in consegna una bottiglia di champagne che ci avevano regalato.

Poco tempo dopo un aereo da caccia nemico mitragliò la ferrovia e tutti cominciammo

ad aver paura. Non passò molto tempo quando una squadra di quadrimotori

sorvolò la città. Erano cinquanta aerei, in formazione triangolare che

volavano molto in alto. Ma la terra tremava sotto i piedi, quando s’avvicinavano.

Lasciarono cadere il loro carico di bombe sulla città.

E fecero un disastro. Fummo presi tutti di sorpresa e impreparati.

Era la prima volta.

Non c’era più nessun dubbio.

Bisognava abbandonare la città e rifugiarci in campagna. E questo facemmo.

Io non avevo dimenticato la bottiglia di champagne.

Era troppo preziosa e quando ci trasferimmo in una villa a 15-20 chilometri di

distanza, la misi tra le cose da portare con noi, bene imballata con giornali, in

una scatola di cartone.

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1. Molti, molti anni dopo, quando la guerra era già diventata un ricordo, posero il suo

nome ad una strada della città, in ricordo dell’umanità con cui aveva esercitato la sua

professione in quegli anni feroci.

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Quando chiedevo a mio padre di aprire la bottiglia, lui diceva sempre d’aspettare

la fine di quel brutto periodo.

L’avremmo aperta in un’altra occasione.

Ma la guerra, i bombardamenti e la fame ci accompagnarono per lungo tempo.

Sognavamo la pace, la casa in città, una vita normale. La normalità era un sogno

che sembrava irraggiungibile. Ma io continuavo a conservare lo champagne.

Forse avremmo potuto berlo alla fine del conflitto.

E dal sud si avvicinò il fronte di guerra. Quando fu abbastanza vicino, mio

padre decise di portarci con lui, nell’ospedale dove lavorava. Lì c’era la croce

rossa dipinta sul tetto.

Il passaggio del fronte era troppo pericoloso ed imprevedibile e lui disponeva

di una stanza grande, sufficientemente grande per tutti noi. Lì avremmo potuto

aspettare la fine dei giorni più pericolosi.

La decisione della fuga era stata presa in fretta e furia. Non portavamo quasi

nulla con noi. Gli ultimi a partire fummo io e mio padre.

Io avevo aperto la scatola di cartone e tenevo nel pugno, per il collo, la bottiglia

di champagne. Mio padre si impazientì perché stavo perdendo tempo per

quella sciocchezza.

Ce ne andammo camminando in fretta. Si camminava lentamente, con precauzione,

solo quando un rilievo o una piccola collina nascondeva l’orizzonte. A

nord e a sud della zona dove eravamo erano schierati i due fronti, non molto

lontano.

Non c’era movimento. Non si vedeva nessuno. Si udivano solo i sibili dei

proiettili dei cannoni che passavano sulle nostre teste ed andavano a scoppiare

più lontano. Noi avevamo scelto un percorso in linea retta tra la villa e l’ospedale,

in mezzo ai campi. Erano forse dieci chilometri da fare a piedi, senza neppure

uno stradello. Ma questo non importava molto. Avevamo paura.

Ma c’era un fiumicello che ci sbarrava la strada. Non era grande, ma profondo.

O forse io non ero molto alto a quell’età. E l’acqua era fredda. L’attraversai

tenendo la bottiglia sopra la testa. Mio padre mi disse qualcosa circa la mia

testardaggine e a proposito di quella bottiglia.

Ma la fortuna era con noi. Arrivammo all’ospedale e ci rifugiammo nell’abitazione

riservata a noi. Io ero zuppo, per aver attraversato il fiume. Posai la bottiglia

sopra un tavolinetto basso e mi allontanai un po’ per asciugarmi e coprirmi

come potevo.

Poi si udì uno scoppio e, quando mi voltai a guardare, vidi i pezzi di vetro della

bottiglia ed il liquido giallo dello champagne ancora spumeggiante sul pavimento.

Uno dei miei fratelli, il più piccolo, correndo nella stanza, aveva urtato

il tavolino che sosteneva la preziosa bottiglia.

I TEUTONI E “L’UOMO CHE RIDE”

Era completamente idiota. Avrà avuto vent’anni e rideva. Rideva sempre e correva.

Ma era un bravo ragazzo, dicevano. Faceva tutto quello che gli si diceva,

la madre assicurava, e l’aiutava molto in famiglia.

Noi eravamo studenti di ginnasio ed andavamo ai giardini pubblici, a Fabriano,

nelle belle giornate. Eravamo all’inizio della guerra e quella sarebbe stata

l’ultima “bella estate” di vacanze.

L’idiota qualche volta si univa a noi. Quasi non parlava e quando parlava si

capiva molto poco. Rideva, poi si metteva a correre. Io non sapevo neppure

come si chiamasse. In una occasione, per merito anche suo, appresi alcuni

sinonimi.

– Perché lo lasceranno libero? Dovrebbero occuparsene – disse uno del nostro

gruppo.

– Ma è buono. Fa parte del paesaggio e poi è come noi, nativo, indigeno, autoctono

– rispose quello che era il più bravo a scuola, facendo sfoggio della sua

conoscenza del vocabolario dei sinonimi del Tommaseo, che avevamo conosciuto

da poco, a scuola.

Al centro dei giardini pubblici c’era una grande fontana rotonda, con uno zampillo

molto alto, con pesci rossi e l’idiota, dopo una bella corsa, tutto sudato,

la raggiungeva e sommergeva la testa nell’acqua. Poi la scrollava come fanno

i cani quando sono bagnati.

E rideva e viveva contento.

Noi non gli facevamo molto caso. Contagiava allegria anche a coloro che gli

erano vicini col suo riso spensierato e irresponsabile.

Poi cominciò il periodo peggiore della guerra. La guerra mondiale del ’40. Bombardarono

la città, che rimase deserta. Tutti si rifugiarono in campagna.

Con la mia famiglia trascorsi molto tempo in una villa isolata, sopra una collina.

Un giorno venne a visitarci un compagno di scuola di mio fratello, che viveva

in un paesotto vicino. Si parlò di molte cose e, a un certo momento, lui disse: –

anche quel poveraccio di Carlo è morto -.

– Quale Carlo?

– Carlo, l’idiota, “l’uomo che ride”.

I tedeschi, che si stavano ritirando, l’avevano catturato. Lo accusarono d’essere

una spia dei partigiani. Ma lui rideva, rideva sempre. Non si difese e lo fucilarono.

Il suo ricordo si perse nel nulla. Nessuno ne parlò mai più. Furono tanti i morti

che seguirono!

Da “Valigie di cartone” – Centro Marchigiano di Pergamino (Argentina).

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PRIME ESPERIENZE NEL NUOVO MONDO

Arrivato in Argentina da pochi mesi, venne il momento di fare il raccolto nei

campi sperimentali stabiliti nella zona.

Con una camionetta e una “jeep Willy” (un residuato di guerra rimesso a nuovo)

e sei uomini (che sapevano ancora come raccogliere il mais a mano) stavamo

realizzando il nostro lavoro quando fummo fermati, sull’autostrada, da un

gruppo di uomini scesi da un camion.

Come ho detto, io ero arrivato da poco in Argentina. Capivo abbastanza quando

la gente del luogo mi parlava e mi facevo intendere dai miei uomini, ma non

avevo ancora il coraggio di parlare ad estranei nella nuova lingua, che conoscevo

appena.

Sapevo che l’accento, la maniera di costruire le frasi e gli spropositi detti mi

facevano riconoscere subito come straniero.

Il gruppo di individui che era sceso dal camion si mostrava arrabbiato ed

aggressivo.

Io non afferravo bene la situazione. Gridavano che c’era un “paro”. Che non era

possibile che gente come noi rompesse “el paro” e facesse la raccolta del mais.

Non conoscevo il significato della parola “paro”.

Lo chiesi ad uno dei miei uomini, che mi spiegò che c’era uno sciopero degli

operai agricoli.

La mia gente taceva, senza reagire all’aggressività degli sconosciuti.

Preoccupato, cominciai a parlare io, cercando di spiegare che non eravamo

”crumiri”, ma solo personale della Stazione Sperimentale che non voleva perdere

i risultati degli esperimenti ed il lavoro di un intero anno che, alla fin fine,

noi facevamo in beneficio di tutti.

Non facevamo la raccolta del mais per nessun proprietario.

Naturalmente parlavo in italiano, senza neppure rendermene conto.

Ed allora successe una cosa strana. Quegli uomini deposero la loro aggressività.

Io, un giovane che parlava in modo più o meno comprensibile, la sigla dell’istituzione

per la quale lavoravamo, scritta ben grande sulle auto e che evidentemente

essi conoscevano, parvero loro una valida ragione per accettare i

nostri motivi.

Non dissero più nulla. Risalirono sul loro camion e solo quello che guidava,

affacciandosi al finestrino, disse in modo educato: “no lo hagan más” e

se ne andarono.

La mia gente mi spiegò poi che non era molto prudente fare cose del genere e

cioè interferire con uno sciopero.

Io avevo la coscienza tranquilla.

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– Voi non mi avete avvertito ed io non sapevo – mi giustificai.

Erano brava gente. Con gli anni, più di una volta si dimostrarono amici.

***

Un giorno percorrevamo un’autostrada con la camionetta di servizio. Il mio

aiutante guidava, io leggevo un foglio di istruzioni per un lavoro che dovevamo

fare.

Ad un certo momento un uomo, al bordo della strada, ci fece cenno di fermare

e chiese un passaggio sino al seguente villaggio.

L’autista disse subito di sì e lo fece salire nella cabina.

Io non ero molto contento.

Venivo da un paese dove esisteva una legge che faceva responsabile il proprietario

dell’auto di qualsiasi possibile incidente.

Più di un tribunale, in Italia, aveva emesso condanne in casi di incidenti e sapevo

che solo noi, il personale dell’istituzione, eravamo coperti dall’assicurazione.

Ma in quegli anni le cose erano diverse in Argentina.

Per lo meno nell’interno, c’era molta onestà e rispetto anche per gli sconosciuti.

Solo negli ultimi tempi le cose son cambiate e molto.

Lo sconosciuto cominciò immediatamente a parlare con l’autista. Io tacevo.

Ad un certo momento ascoltai una parola che non conoscevo: “sartén” ossia

“padella”.

Vinto dalla curiosità chiesi al mio aiutante cosa significava.

Lo sconosciuto, ascoltata la mia domanda, si sorprese e scandalizzato, disse:

– Ma come, un giovane come te non conosce una padella? Bisogna studiare.

Non c’è più posto per gli ignoranti in questo mondo! –

Ma l’autista intervenne.

– Il dottore è italiano – disse.

Lo sconosciuto ammutolì.

Io tacevo e lui non aprì più bocca sino all’arrivo. La scena si fece pesante. Sembrava

d’ascoltare il silenzio che regnava nella cabina dell’auto.

Arrivati all’entrata del suo paesotto, l’auto si fermò e il passeggero scese, senza

dir parola.

Io ebbi un po’ di vergogna. L’autista sorrideva.

***

Lavoravo da poco tempo nella Stazione Sperimentale e un giorno il segretario

della sezione mi avvertì che dovevo presentarmi immediatamente in direzione.

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Presi la camionetta di servizio ed andai.

Una segretaria mi disse che mi aspettavano nel salone delle riunioni e che

dovevo partecipare ad una trattativa con alcuni dirigenti di una grande società,

con i quali la Stazione Sperimentale stava progettando una collaborazione.

Quando entrai mi resi subito conto che c’era una atmosfera tesa tra i presenti.

E la cosa non era piacevole, particolarmente per me che avevo ancora problemi

con la lingua.

Il direttore ed i dirigenti della società non riuscivano a mettersi d’accordo.

Erano tutti seduti nel mezzo del salone delle riunioni, dove c’era un grande

tavolo ovale, con un vetro spesso e oscuro sulla superficie.

Io salutai e mi sedetti, deciso a non parlare o parlare con molta prudenza non

essendo al corrente di quanto era stato detto o discusso in precedenza.

Era estate ed indossavo una camicia color verde, nuova.

Ben presto i rappresentanti delle due parti cominciarono ad alzare la voce.

Io diventai nervoso e, poiché dal bottone del polsino della camicia fuoriusciva

un filo bianco, lo afferrai e tirai più forte del necessario.

Non l’avessi mai fatto!

Il filo venne via ed il bottone, libero, saltò sul vetro, nel mezzo del magnifico

tavolo, con un rumore che a me parve assordante e continuò a sobbalzare con

un ticchettio che non avrei mai immaginato possibile.

Tutti i partecipanti alla riunione interruppero i loro discorsi, seguendo con gli

occhi il percorso del bottone, che non si fermava mai.

A me sembrò che il sangue mi si congelasse nelle vene e trattenni il respiro, preso

da un’ansia irragionevole. Ma, guardando il direttore, vidi che la sua faccia,

da molto seria, si faceva distesa. Un rappresentante della società ospite, sorrise

lievemente. Il suo vicino cominciò a ridere e trascinò in una sonora risata tutti

i presenti.

Il gelo della riunione si era rotto e tutti cominciarono a discorrere cordialmente.

Nessuno disse una parola sul bottone. Mi guardavano sorridendo e parlavano

tutti insieme e interrompendosi l’un l’altro.

La riunione finì poco dopo. Le due parti si posero d’accordo rapidamente e,

quando i visitanti si apprestavano ad andar via, si avvicinarono per salutarmi

con grande effusione.

Io raccolsi il bottone, pietra dello scandalo, e lo posi nel taschino della camicia

per farlo ricucire in casa.

Ma non troppo forte… perché aveva dimostrato d’essere capace di salvare

situazioni molto compromesse.

***

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Il primo giorno di lavoro ero seduto alla mia scrivania, leggendo alcune relazioni

per mettermi al corrente della situazione. I due ingegneri agronomi (in

Argentina si chiamano così i laureati in agronomia) che mi avevano preceduto,

mi avevano lasciato solo. Uno era stato trasferito ed il secondo era partito per

il Nord America con una borsa di studio.

Io ero lì per sostituirli.

Il direttore, un uomo corpulento e quasi sempre sorridente, entrò nell’ufficio

e si sedette davanti a me.

Dopo lo scambio di alcune frasi di cortesia, mi disse:

– Tu e la tua famiglia siete arrivati da pochi giorni. Immagino che avrete un sacco

di cose da fare, per sistemarvi. Avrete preoccupazioni come sempre accade

in simili frangenti. Sono venuto a dirti che io pretendo che il personale della

sperimentale si dedichi e pensi al proprio lavoro. Pertanto se hai problemi

urgenti da sbrigare, qualsiasi cosa… dimmelo. Provvederò io, se possibile. Pensa

al lavoro e lascia che io mi guadagni il mio stipendio come direttore. –

Io rimasi senza parole. Mai avrei immaginato una simile accoglienza. Mai sentito

dire una cosa così, in Italia.

La decade del ’60 era un periodo molto buono per la ricerca, in Argentina ed il

comportamento del direttore lo lasciava intravedere.

E negli anni seguenti io, che venivo da un altro paese, fui in grado di fare un

buon lavoro.

Venivo da un altro continente. Vedevo i problemi in modo diverso e vedevo

cose che il personale del luogo non vedeva, semplicemente perché quelle cose

erano state sempre così.

Purtroppo negli anni seguenti tutto cambiò. L’economia non migliorò. Ci

furono vari “golpes” da parte dei militari, che non aiutarono.

Ma quanto era successo all’inizio mi diede l’idea di come fosse apprezzato il

lavoro di ricerca nel paese.

L’Argentina rimane sempre un grande paese agricolo, con un Istituto per la

Ricerca Agricola meraviglioso. Ma la ricerca richiede tempo e denaro, non

sempre disponibili a sufficienza.

IO… ANTIFASCISTA?

A Fabriano, nelle Marche, faceva freddo d’inverno.

Ogni due o tre anni veniva il “nevone” e tutta la città rimaneva coperta da 40-

50 centimetri di neve.

Non so come sarà ora , con il “riscaldamento globale”.

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Ed era una festa per noi adolescenti ed ancor più per me che ero proprietario

di un paio di sci e percorrevo a piedi vari chilometri, sino alla cima di una collina

chiamata “Monticelli” per trascorrere tutto un pomeriggio sulla neve.

Erano gli anni del fascismo e quando si scriveva una lettera, si metteva, in alto,

a destra: “Anno XX Era Fascista”. Ed io facevo il ginnasio.

In quegli anni si andava a scuola tutti i giorni della settimana ed anche il sabato,

che era anche lui “fascista”; “sabato fascista”, il che significava che nel pomeriggio

non si faceva lezione, ma bisognava mettersi in divisa per fare esercizi militari

nel cortile del vecchio convento, dove erano le aule del ginnasio e del liceo.

Tutti gli studenti erano, a seconda dell’età, figli della lupa, balilla o avanguardisti.

I figli della lupa erano i più piccoli e non avevano obblighi particolari.

I balilla avevano come divisa, pantaloni corti di color verde e camicia nera. Gli

avanguardisti indossavano pantaloni alla zuava e giacca verde.

Il mio problema era che a un certo punto cominciai ad usare pantaloni alla zuava

anche quando ero vestito da civile e, quando mi fui abituato a stare con le gambe

ben coperte dal freddo dell’inverno, non avevo più molta voglia di mettere i pantaloni

corti per andare a compiere il mio dovere di balilla. Sentivo freddo.

Ed un giorno ebbi una brillante idea.

Visto che mio padre era medico, perché non farmi fare un certificato per giustificare

la mia assenza e non dover andare a prender freddo nel cortile del convento?

Così il lunedì seguente, quando finito l’appello l’insegnante mi disse che dovevo

presentarmi al preside per giustificare la mia assenza al “sabato fascista”, io

andai tranquillo. Presentai il certificato e tutti finì lì.

Ma il problema non era risolto, perché poi vennero gli altri sabati e, data la mia

insistenza, mio padre mi fece altri certificati. E la cosa andò avanti per tre o

quattro settimane.

Ma un lunedì mattina, quando mi presentai al preside, questi mi disse con voce

stentorea che se il seguente sabato non avessi partecipato agli esercizi militari,

in divisa e con tanto di moschetto di dimensioni ridotte, sarei stato espulso da

tutte le scuole del regno.

In quei tempi avevamo ancora un re.

Io non mi impressionai molto e il sabato seguente fui di nuovo assente. Forse

non mi rendevo ben conto di cosa significasse non poter andare più a scuola. Il

lunedì seguente, dopo l’appello, mi fecero uscire dall’aula, ed io ero forse più

contento che dispiaciuto.

Ma la “dea fortuna” esiste.

Nella settimana seguente un aereo da caccia nemico sorvolò la città e mitragliò

la linea ferroviaria. Era la prima volta che avevamo a che fare con il nemico, che

sino allora conoscevamo solo per quello che dicevano i “giornali radio” .

17

Molta gente uscì dalla città per vedere l’effetto del mitragliamento. Le traversine

di legno erano scheggiate. Sui binari si vedevano le tracce brillanti che i

proiettili avevano lasciato sull’acciaio. Ma niente più..

Poi, pochi giorni dopo, una squadra di cinquanta quadrimotori, in formazione

triangolare, sorvolò la città e lasciò cadere un micidiale carico di bombe.

Non c’era stato allarme. Era la prima volta che succedeva e la distruzione fu

grande ed i morti molto numerosi.

Pochi giorni dopo tutta la città era deserta. La popolazione era sfollata nelle

poche ville e nelle case dei contadini nella campagna circostante.

Quando, dopo più di un anno, ritornammo in città e ricominciarono le scuole,

nessuno ricordò più la mia “espulsione da tutte le scuole del regno”

L’ESAME

Io, finito il liceo, partivo per frequentare i corsi della facoltà d’agronomia, nell’università

di Pisa.

Avevo con me una valigia con solo le mie cose personali e non avevo la minima

idea dell’ambiente in cui mi sarei trovato a vivere e studiare.

La prima materia che, secondo il programma, dovevo frequentare era matematica.

Poi seguivano fisica, botanica, genetica e tutte le altre.

Il corso di matematica veniva impartito nell’edificio “La Sapienza”, al centro della

città. Una costruzione monumentale, dove c’era un grande salone con un pavimento

di legno, non lucidato e vecchio, che rendeva l’ambiente polveroso. In

fondo al salone, su una pedana, una cattedra che, mi dissero, era stata di Galileo.

Non so se sarà vero. Ma vera era l’atmosfera tipo:”noi siamo gli eredi di Galileo”

che si viveva nell’istituto. Nessuno prestava la minima attenzione agli studentelli.

Gli insegnanti erano inavvicinabili ed anche il resto del personale sembrava

essere ben cosciente di quell’eredità.

Mi fu indicato di entrare in un’aula ad anfiteatro, molto grande.

I banchi erano forse davvero del tempo di Galileo, tanto erano vecchi.

C’erano pochi studenti dispersi che seguivano, silenziosi, un anziano signore

che, in cattedra, scriveva su una lavagna e parlava.

Parlava di sistemi d’equazioni e determinanti e del modo di semplificare questi

ultimi per poterli risolvere.

Non c’erano ancora i calcolatori.

Io non avevo idea di cosa si trattasse.

Avevo frequentato il liceo classico. Avevo appreso che il greco, il latino e l’italiano

erano le materie veramente importanti.

18

Ciò che ascoltavo in quell’aula servì solo a darmi un’idea di cos’è il complesso

d’inferiorità.

E fu tutto per quel giorno.

L’indomani andai ad ascoltare una lezione di botanica. Questa volta, pensai,

sarebbe stata un’altra cosa.

Nell’aula entrò un signore anche lui anziano, piuttosto grasso che, in piedi, con

gli occhi semichiusi, cominciò a parlare, con un linguaggio molto ricercato e

nuovo per me, di ontogenesi, filogenesi e così via.

Dico la verità che quando uscii dall’istituto di botanica ero davvero spaventato.

Possibile che con un diploma del liceo classico non fossi in grado di seguire

corsi universitari?

A dire il vero si trattava di matematica e scienze, cose non molto approfondite

nel classico e che io non avevo mai curato molto.

E presi una decisione.

Ritornai a Fabriano col primo treno, raccolsi tutti i libri del liceo che mi sembravano

necessari e ritornai a Pisa.

Questa volta cominciai a studiare le cose basiche di matematica, fisica e scienze

e, solo alla metà del corso, dopo mesi, frequentai assiduamente le lezioni

universitarie.

Fu un anno straordinario e, per la prima volta, appresi cosa significa studiare

veramente.

Venne il giorno dell’esame di matematica.

Questo si svolgeva così: c’era una gran porta chiusa e una lunga fila d’una ventina

o più di ragazzi, tutti con il libretto universitario in mano.

Un bidello seduto a un tavolo, faceva entrare uno studente alla volta, quando

ascoltava un campanello e richiudeva la porta misteriosa.

Non passavano più di dieci minuti o un quarto d’ora e gli studenti uscivano,

frequentemente con la faccia seria, e se ne andavano per una porta laterale.

Quando qualcuno chiedeva come era andata, non rispondevano o facevano un

gesto scoraggiato, molto significativo.

Io ero nella fila tra i primi cinque e più di una volta mi fu chiesto di cambiare

il posto con uno del fondo della fila.

Erano quelli che non resistevano alla tensione che c’era nell’aria e volevano

finire subito, in qualsiasi modo.

Ma anch’io ero diventato fatalista. Se il destino mi aveva assegnato quel turno,

quello avrei conservato.

Quando entrai nella stanza fatale, vidi un grande tavolo con tre uomini seduti.

Quello del centro sembrava essere il presidente della commissione.

19

A me disse, molto gentilmente, di sedere. Poi prese un foglio di carta grande,

un foglio di carta di disegno e scrisse qualcosa in alto a sinistra. Me lo porse

insieme ad una matita ben appuntita, senza dir parola.

Aveva scritto un’equazione con esponenti, da derivare.

Sì, però non era tanto semplice. Bisognava trasformare gli esponenti, prima di

poter fare la derivazione. Io avevo studiato una espressione simile il giorno prima,

ripassando la materia e, anche se con mano tremante, feci quanto mi si

chiedeva silenziosamente.

Il professore, presidente della commissione, guardò il risultato ed allora

cominciò a fare domande e qui cominciò il vero esame. Solo allora intesi cosa

era accaduto prima di me, con coloro che uscivano dopo pochi minuti, con la

faccia seria. L’esercizio da svolgere sul foglio di carta da disegno era solo una

maniera di porre fine rapidamente all’esame.

Quando dopo qualche tempo, e a me parve un secolo, uscii, uno di quelli che

stavano nella fila aspettando, mi chiese come era andata.

– Molto bene – dissi. Infatti nel libretto universitario c’era scritto trenta. Il punteggio

massimo.

Allora lui, approfittando del mio stato d’animo, mi chiese se gli prestavo le

dispense sulle quali avevo studiato.

Io, felice, gli dissi di prendersi tutto ed ero tanto frastornato che non gli chiesi

neppure come si chiamava.

Un anno dopo, quando non ero più “matricola”, mentre mi trovavo nell’istituto

di microbiologia, un ragazzo venne a cercarmi dicendomi che era venuto

per restituirmi le dispense di matematica che gli avevo prestato.

Io, ricordando il fatto, gli chiesi come aveva saputo il mio nome.

– Ho solo chiesto dove si trovava lo studente d’agronomia che aveva preso

trenta in matematica – mi rispose.

Ora quelle dispense, che la compagna della mia vita fece rilegare, tanti anni fa,

in due volumi con la copertina rossa, sono ancora nella mia libreria. Sono un

gran bel ricordo.

LA FANCIULLA GALLIANA

Perugia è il capoluogo dell’Umbria. È una città non molto grande, tutta salite

e discese, ubicata su un’alta collina.

Sono frequenti stradicciole molto strette d’epoca medievale, fatte per transitare

a piedi o a cavallo.

È una città cresciuta nei secoli, rispettando molta parte delle antiche costruzioni.

20

Ricordo che un giorno dovetti andare, per motivi di lavoro, sino al centro della

città.

Entrai per la porta del sole e parcheggiai l’auto vicino alla piazza grande. A quei

tempi ancora si poteva.

Mi inoltrai nelle stradine del centro e, chiedendo ad alcuni passanti, trovai l’edificio

nel quale dovevo andare.

Sbrigate le mie cose, all’uscita del palazzo, mi sembrò che sarei arrivato prima

al parcheggio dell’auto, camminando più o meno in linea retta.

Così mi inoltrai per vicoli stretti, ombreggiati da alte costruzioni laterali. Dopo

un breve tratto, la stradina si aprì su una piazza non molto grande e deserta.

Vidi immediatamente, sulla sinistra, quello che mi sembrò un sarcofago di pietra

bianca, murato sulla parete di una casa, ad altezza d’uomo.

Mi avvicinai e constatai che effettivamente era un sarcofago, con incisa una

scritta:

“Qui giace la fanciulla Galliana, beneamata dalla popolazione che volle conservarla

con se, nel quartiere, dopo la sua prematura morte”.

Il sarcofago e la scritta mi lasciarono pensando. La stranezza della scoperta e il

significato di quelle parole erano un buon motivo.

Era una bella giornata di primavera e nella piazzetta regnava il silenzio. Quella

scritta e l’aspetto medievale del luogo mi suggerirono la visione di una giovane

ragazza, bella e gentile, benvoluta da tutti e che viveva felice in quel posto

incantevole, stroncata un giorno, da una impietosa malattia. Immaginai lo

sconcerto e il dolore provato dai vicini al vedere qualcosa di giovane e bello

finire così, all’improvviso.

Ero anch’io nel Medioevo e mi sentivo partecipe.

Dopo un po’ ritornai in me ed era mezzogiorno passato.

Mi avviai alla ricerca di un ristorante.

“Più che il dolor poté il digiuno”.

L’INIZIO DELLA GUERRA

Eravamo nel 1940. Tutta la famiglia era seduta su seggiole, disposte a semicerchio,

di fronte alla radio accesa.

Da Roma, doveva parlare il Duce.

Avrebbe dichiarato la guerra alle nazioni “plutocratiche” che si erano schierate

contro la Germania.

I tedeschi avevano già conquistato la Polonia, l’Olanda, il Belgio, la Francia e

la guerra sarebbe finita presto, si diceva.

21

Il rappresentante di una casa editrice riuscì a vendere un atlante a mio padre,

con la promessa che avrebbe ricevuto, gratis, i nuovi fogli con impresse tutte le

future modifiche che Germania ed Italia avrebbero fatto ai confini degli stati

europei, non appena terminata la guerra.

Se l’Italia non entrava in guerra ora, Mussolini non avrebbe potuto sedere al

“tavolo della pace”.

Alla radio si ascoltava l’ovazione della folla riunita nella piazza, di fronte a

“Palazzo Venezia” dove, da un balcone, si sarebbe affacciato il Duce.

Tutti, chi più chi meno, erano entusiasti. L’Italia non aveva un esercito molto

armato, ma “quattro milioni di baionette” erano pur qualcosa.

Solo i più anziani, che ricordavano la prima guerra mondiale, avevano dubbi.

Ma neppure loro potevano immaginare quanto diversa e terribile sarebbe stata

questa seconda.

Così iniziò la seconda guerra mondiale.

Quando terminò l’Italia era distrutta.

***

La guerra era già cominciata e, insieme a mia madre, ero andato a Porto Civitanova,

dai miei nonni.

La città è situata sull’Adriatico, con una bella spiaggia di sabbia bianca e ciottoli

molto levigati, che non danno fastidio quando si camminava a piedi nudi.

Io ricordavo la spiaggia com’era d’estate, negli anni precedenti al conflitto,

molto affollata da grandi e bambini che giocavano, con file di capanni di legno

ad una certa distanza dalla riva e piena di ombrelloni, di tutti i colori, nello

spazio tra i capanni ed il mare.

C’era molta musica e molti “mosconi”, una specie di piccoli “catamarani”,

tutti dipinti di bianco, che si potevano affittare per remare al largo, nei giorni

di mare calmo.

Alcuni venditori percorrevano la spiaggia, avanti e indietro, offrendo bibite,

pasticcini e “bombe alla crema”, spesso seguiti da un codazzo di bambini che

non avevano il denaro necessario per comprare quelle leccornie.

Quel giorno io mi avviai alla spiaggia da solo, perché tutti mi consigliavano

di non andare.

Poco tempo prima era stato visto un sottomarino, dicevano, e non si sapeva

se amico o nemico.

Quando arrivai alla spiaggia, la trovai completamente deserta.

Non c’era gente, non c’erano capanni, non c’erano ombrelloni colorati, né

musica.

22

È difficile dire quel che provai alla vista di un simile spettacolo, in quel silenzio

assoluto. Più che sorpresa, era spavento, anche se irragionevole. Forse il

pensiero di vedere emergere dall’acqua un altro sottomarino.

Impossibile godersi lo spettacolo, pur bello, di quell’arena bianca con ciottoli

di vari colori, di quel mare calmo, perfettamente liscio e trasparente e brillante

come si vedeva raramente anche d’estate.

Decisi immediatamente di ritornare in città, nella confusione e nel traffico.

Là si poteva stare ancora tranquilli.

AMOR DI PATRIA

La Stazione Sperimentale Agricola nella quale lavoravo, era localizzata nel centro

dell’Argentina, vicino ad una cittadina non molto grande.

Molti italiani e discendenti di italiani vivevano stabilmente nel luogo e naturalmente

erano soci del Circolo.

Il Circolo non era molto frequentato. La collettività si riuniva solo una o due

volte all’anno per festeggiare ricorrenze patrie.

In queste occasioni si parlava molto dell’Italia. La prima domanda che uno si

sentiva fare era: di che regione sei?

E, se la persona era simpatica, iniziava una conversazione fluida, altrimenti ci

si sentiva dire: ma io sono del Nord… o… ma io sono argentino.

Naturalmente il Circolo aveva una commissione direttiva ed un presidente. La

carica di presidente era molto ambita perché dava diritto a questo titolo a chi

titoli non ne aveva.

Ma i soliti malintesi, tanto frequenti nelle comunità italiane, rendevano sempre

necessarie nuove elezioni.

La cosa più desiderata da tutti era poter fare un viaggio in Italia e molti riuscivano

nell’intento.

Alcune volte la comunità riceveva la visita di rappresentanze diplomatiche e,

già molti anni fa, un ambasciatore che era di passaggio si fermò un paio di

giorni nel migliore albergo della città.

Era una persona molto alla mano che preferiva parlare con le persone singole

e non fare discorsi.

Erano ancora tempi nei quali si preferiva non mostrare molto amor di patria.

Alla fine, la sconfitta della seconda guerra mondiale non era poi tanto lontana.

La visita al monumento del Milite Ignoto, a Roma, non era di moda.

Tutti coloro che hanno sofferto la guerra, la sconfitta ed il dopoguerra sanno

bene di cosa sto parlando.

23

Tra gli italiani non c’era accordo se si dovesse festeggiare il quattro novembre

e quindi una vittoria o il due giugno e cioè una… sconfitta.

Nel Circolo, normalmente vinceva il partito del quattro novembre, ma una

consulta realizzata presso il consolato ci informò che per loro questo giorno

era un giorno lavorativo.

Solo alcuni anni dopo un presidente della Repubblica Italiana impose il festeggiamento

del giorno della fondazione della Repubblica.

In occasione della visita dell’ambasciatore alcuni gli chiesero lumi sulla opportunità

di scegliere una delle due date.

Ma l’ambasciatore non per nulla era un diplomatico. Fece alcuni cenni alla prima

guerra mondiale ed altrettanti sulla seconda, senza pronunciarsi e terminò

la conversazione dicendo che per quanto riguardava la sua italianità… lui aveva

sposato una signora turca!

Quando fu accompagnato all’albergo, il diplomatico volle saldare il suo conto

ma il portiere, che sapeva chi era, gli disse d’aspettare un minuto e andò a chiamare

il proprietario.

Questi, un vecchio italiano, venne a salutare e, con un tono che non ammetteva

repliche, gli disse che nessun ambasciatore del suo paese avrebbe mai pagato

per la permanenza nel suo stabilimento.

Molte volte ripensai a quelle parole.

Non è questo Amor di Patria?

IO, LA GUERRA E GLI EROI

La guerra è la seconda guerra mondiale, quando ero solo un ragazzo.

Pertanto non sono stato richiamato alle armi, né mandato a un fronte.

Sono scampato a un lungo periodo di bombardamenti ed alla ritirata dei

tedeschi.

Non è stato piacevole, ma ho potuto osservare molte cose.

In quel periodo eravamo sfollati. Si viveva in campagna, abbastanza lontano

dalla città, in una villa su una collina.

Un giorno accompagnavo mio padre, medico, che aveva visitato uno dei suoi

clienti.

A piedi, scendevamo per la strada di terra da una collina, quando sentimmo il

rombo di un motore d’aereo.

Avemmo solo il tempo di girar la testa per vedere un caccia. Credo fosse uno

spitfire, per il tipico disegno delle ali.

In picchiata, veniva diretto verso noi due, alle nostre spalle.

24

Istintivamente saltammo il bordo della strada, io da un lato e lui dall’altro,

rotolando sui lati della collina.

L’aereo ci sorpassò a non molti metri dal suolo, riprendendo quota e rimpicciolendo

in lontananza.

Non avemmo neppure il tempo di provar paura. Probabilmente il pilota aveva

voluto spaventarci. Molti di quei piloti da caccia erano poco più che ragazzi.

Un piccolo scherzo!

***

Un bel giorno, di primo mattino, quando ancora dormivamo tutti, arrivarono

alcuni “sidecar” con soldati tedeschi. Ci cacciarono dal secondo piano a pianterreno

e nelle nostre stanze si installarono loro.

Era un comando austriaco, come sapemmo poi. Fummo fortunati, perché si

diceva che gli austriaci fossero più amichevoli dei tedeschi.

Erano quasi tutti molto giovani.

Era difficile parlare con loro perché conoscevano solo poche parole d’italiano.

Io invidiavo loro il pane di segale, nero, che mangiavano spalmato di margarina,

regolarmente, alle ore dei pasti, mentre noi avevamo tessere per comprare

alimenti, che non servivano molto, visto che gli alimenti non c’erano.

Tutte le mattine partivano i “sidecar” con tre uomini. La sera tornavano le

motociclette col carrozzino spesso vuoto.

A turno, i soldati avevano un giorno di vacanza, ogni settimana.

Una mattina uno di loro, nel giorno di riposo, disegnava seduto sul prato di

fronte alla casa.

In quei tempi anch’io mi divertivo, di quando in quando, a scarabocchiare su

fogli di carta da disegno.

Mi sembrò quasi un collega e poiché non aveva molti anni più di me, mi feci

coraggio e provai a parlargli.

Naturalmente sia io che lui ci intendevamo più con gesti delle mani e della testa

che con le parole.

Mi mostrò il paesaggio che cercava di riprodurre e mi sembrò di capire che

quel pomeriggio sarebbe dovuto partire per il fronte.

– “Paura” ripeteva, “Paura”.

Io non riuscivo a intendere: era lì, senza nessuno che lo sorvegliasse, sapendo

che dopo alcune ore sarebbero venuti a prenderlo per portarlo al fronte, da

dove non sarebbe tornato e con una gran paura .

Sapeva benissimo che i tedeschi avevano già perduto la guerra. Aveva davanti a

sé chilometri di campi e colline boscose e non pensava neppure a fuggire.

25

Gli chiesi più volte perché non se ne andava.

– Ordini… ordini… ja… dodici, venire –

Gli avevano detto che sarebbero venuti a prenderlo alle dodici e lui aspettava.

Io mi convinsi che i tedeschi erano molto disciplinati, ma anche un po’ stupidi.

Non so per quale motivo, ma non lo rividi più.

***

C’erano altri soldati, un po’ più anziani, sposati, che bisognava evitare, perché

appena potevano tiravano fuori dalla tasca il portafoglio con le foto della

moglie e dei figli e non c’era modo di cambiare argomento

***

Una volta accompagnavo mio padre per una stradina di campagna ed incontrammo

un tedesco con i capelli rossi, che aveva voglia di fare amicizia. E parlava,

parlava sorridendo, ma sempre in tedesco e noi non capivamo niente.

Smise quasi subito di sorridere appena cominciò ad udirsi il rombo, sempre più

forte, di una squadriglia di quadrimotori che si avvicinava.

Non c’era pericolo perché eravamo in aperta campagna, ma lui cominciò a tremare

e quando il rombo dei motori si fece più forte, si gettò bocconi sul campo

al bordo della stradina, nascondendo la faccia tra le zolle del terreno arato.

Quando gli aerei furono passati ed erano già lontani, il soldato si alzò e con l’espressione

della faccia un po’ stralunata ripeteva:

– Russia… Russia.

Capimmo che lo avevano mandato in Italia dopo essere stato sul fronte russo.

Si era salvato, ma quella dev’essere stata una esperienza terribile.

***

C’era vicino alla nostra città un ponte, chiamato “i sei ponti” perché aveva sei arcate.

Faceva parte della linea ferroviaria Roma-Ancona e pertanto era molto importante.

Nell’ultimo periodo dell’occupazione tedesca, quasi ogni settimana, una squadriglia

di bombardieri, non so se inglesi o americani, tentava di demolirlo

lasciando cadere una miriade di bombe.

Il bello era che il primo aereo della squadriglia accennava appena una “picchiata”

per avvicinarsi al bersaglio, ma tutto il resto del gruppo lasciava cadere il

carico senza neppure provare ad abbassarsi.

Erano prudenti!

26

Naturalmente da quell’altezza era impossibile colpire il bersaglio e le bombe

solo cavavano grandi crateri nei campi.

Noi ragazzi, quando potevamo osservare la scena, sempre la stessa, da una

doverosa distanza, ci scherzavamo sopra.

***

Dato che eravamo sfollati, io non andavo a scuola.

All’inizio, alcune professoresse venivano periodicamente in una cascina, chiamavano

tutti gli studenti dei dintorni, facevano una specie d’esame ed assegnavano

i compiti per la volta seguente.

L’insegnante d’italiano, molto giovane, mi disse di memorizzare non ricordo

quanti versi di un certo capitolo dell’Eneide. E mi annotò i numeri del capitolo

e dei versi.

Per una distrazione, mi aveva indicato l’episodio che trattava dell’incontro di

Didone ed Enea: “e testimoni ne furon il buio e l’antro…”

Quando, nella lezione seguente, mi chiese di recitare i versi ed ascoltò di che si

trattava, arrossì visibilmente.

L’incidente fu molto divertente per me ed i miei compagni

***

Per mia fortuna c’era la villa di un marchese, a non grande distanza da dove

vivevamo noi.

Il padrone di casa era tutto un personaggio. Faceva parte della guardia nobile

del papa, che a quei tempi esisteva ancora. Aveva una moglie americana ed

una squadra di figlie, di tutte le età, una più bella dell’altra.

Loro avevano una biblioteca ed il nipote del padrone di casa era un mio coetaneo

ed io lo conoscevo. Così, periodicamente percorrevo a piedi, tra i campi, il

cammino sino ad arrivare alla residenza del mio amico, il quale mi prestava tutti

i libri che potevo portare sotto le due braccia. Avevano una biblioteca.

In casa nostra non c’era luce elettrica. Le centrali che la producevano erano state

distrutte.

Io, con un barattolino vuoto di concentrato usato per fare il brodo e che aveva

il coperchio di latta, avevo fatto una specie di lampada. Uno spago attorcigliato,

che attraversava il coperchio e pescava nell’olio del recipiente, era lo

stoppino. Così potevo leggere tutto il giorno e gran parte della notte.

Naturalmente la mattina seguente avevo la faccia coperta dal nerofumo ed il

soffitto della stanza non era più esattamente bianco.

27

Un giorno, mentre ritornavo a casa con i libri, arrivarono gli aerei per ripetere

il bombardamento usuale dei “sei ponti”.

Io, pur essendo a notevole distanza dal bersaglio, atterrito dalle esplosioni e dai

bagliori degli scoppi delle bombe che cadevano da tutte le parti, lasciai cadere

i libri ed abbracciai il tronco di una grande quercia, a lato dello stradello, aspettando

ad occhi chiusi la fine di quel finimondo.

Terminato il bombardamento, con le gambe tremanti, raccolsi i libri e, vicino a

questi, trovai una di quelle piccole eliche, di dieci centimetri di diametro, che

servivano ad attivare la spoletta delle bombe.

Non si era rotta. Con lo scoppio era volata fino a me. Era di alluminio. La raccolsi

e la portai a casa. L’ho usata come fermacarte, per tanti anni.

***

Un bel giorno si sparse la voce che erano arrivati gli americani.

Effettivamente i tedeschi, di notte, avevano abbandonato la villa.

Di primo mattino un solo carro armato tedesco, non molto grande, percorse

il tratto di strada del fondo valle, che si poteva osservare comodamente da

casa nostra.

Erano quattro o cinque chilometri di asfalto rettilineo.

Passammo il resto del giorno fuori casa o sul terrazzo per scorgere qualche

indizio dell’arrivo dei “liberatori”. Non avevamo la minima idea di come

sarebbe avvenuto.

Nel pomeriggio inoltrato vedemmo in lontananza una strana automobile, mai

vista prima.

Era una “jeep”, che si fermò subito per un buon quarto d’ora, lontano. Poi percorse

un tratto di strada per fermarsi nuovamente e così per tutto il percorso.

Erano molto, molto prudenti i… “liberatori”!

Non sapevano evidentemente che i tedeschi avevano abbandonato la zona e

non volevano arrischiarsi troppo.

Era già quasi notte quando la ”jeep” fece dietro front e scomparve dalla parte

da dove era venuta.

Erano quelli gli americani che aspettavamo?

Lo erano.

Infatti il giorno seguente comparvero autocarri con un rimorchio che aveva

tante ruote piccoline e che trasportavano carri armati Sherman.

Questi sì, erano carri armati pesanti!

E gli autocarri, uno dopo l’altro, formavano una fila che si snodava lentamente.

Il passaggio degli autotrasporti continuò per due giorni.

28

Alla fine, quando terminò, non c’era più asfalto sulla strada. Era stato polverizzato.

Questo servì a farci meditare sulla pazzia che era stata fatta al voler combattere

con “quattro milioni di baionette”, come diceva la propaganda, contro un

esercito con simili mezzi.

Già avevamo avuto lo stesso pensiero quando erano cominciati i bombardamenti

e vedemmo per la prima volta le squadriglie di aerei quadrimotori. In

Italia non c’erano quadrimotori

In tutti gli anni di guerra io non avevo mai visto un nostro carro armato delle

dimensioni degli Sherman, né un quadrimotore.

***

Durante cinquanta anni, dopo la fine del conflitto, ho visto tanti film , con

soldati molto coraggiosi e ligi al loro dove

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