di Carlo Di Stanislao
Di questi tempi anche i partner europei non capiscono i tedeschi. “Hanno un comportamento assurdo, incomprensibile» sibilano nei corridoi di Bruxelles, dove è Angela Merkel la grande delusione del momento, il suo cieco allineamento su posizioni populiste ed elettoraliste fino l'autolesionismo, i suoi contrasti con il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble che “certo ha posizioni negoziali durissime ma non perde di vista l'interesse strategico della Germania, che è la difesa della stabilità dell'euro”. Questo scrive, sintetizzando il pensiero di tutta l’Ue, Adriana Cerretelli su Il Sole 24 Ore, aggiungendo che mentre tutti, perfino i governi olandese e austriaco da sempre gli oltranzisti del rigore come e più dei tedeschi, hanno già tutto approntato per l'erogazione della rispettiva quota di aiuti, quando scatterà il piano, i tedeschi fanno resistenza e melina, innervosendo tutti i partner europei. Ed anche se nessuno lo dice in modo esplicito, l'irritazione generale per l'”autismo” della Merkel, che non sembra in grado di guardare oltre l'appuntamento elettorale del 9 maggio nel Nord-Reno Westfalia, sta facendo di fatto lievitare in modo astronomico per tutti, non solo per i diretti interessati, i costi del salvataggio della Grecia. Anche se, nei giorni scorsi, Angela Merkel ha spiegato che non si può lasciar fallire uno Stato come la Grecia, trattandolo alla stregua di Lehman Brothers, la banca d’affari americana che l’amministrazione Bush decise (sbagliando) di far colare a picco, di fatto non si attiva per l’erogazione degli aiuti che, pare, lieveteranno fino alla cifra astronomica di 120 miliardi. Il quartetto dei Pigs (Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna) ora è sotto il tiro della speculazione e sul salvataggio di Atene da parte dell’Europa, a questo punto, non si può perdere più tempo. E anche l’Italia deve vigilare. Grazie a Giulio Tremonti, che anche pochi giorni fa ha ripetuto che “non siamo ancora fuori dalla crisi”, l’Italia non ha truccato i conti, non ha un’economia basata sulla finanza e basta, non ha un primo ministro che se n’è infischiato della gestione del debito e della politica del rigore. Il premier Silvio Berlusconi conferma il suo ottimismo sulla ripresa economica, anche l’altro ieri, nell'ambito della conferenza stampa congiunta con il primo ministro russo Vladimir Putin, al termine del vertice Italia-Russia che si e' svolto a Villa Gelmetto a Lesmo in provincia di Monza, ma le cose, per noi, non vanno così bene. Il fatto è che, non per colpa del Cavaliere, l’origine della debolezza economica italiana è antica e risale ai tempi dell’ingresso nell’euro. Come nei casi di Grecia e Spagna, anche l’Italia entrò a far parte della moneta unica, lasciandosi alle spalle un debito pubblico oggettivamente sproporzionato rispetto alla capacità di produrre reddito. Così per un certo periodo trasformarono i debiti in crediti, manipolando i conti. Poi, secondo le accuse del New York Times e dello Spiegel pubblicate nel febbraio scorso, i banchieri di Wall Street, da Goldman Sachs a JP Morgan, aiutarono i governi europei più in difficoltà come Grecia e Italia a riportare i conti in verde così da permettere loro vita felice nell’euro, almeno fino a che il gioco ha retto. Ora il pasticcio greco e le menzogne sul debito “taroccato” bussano alle porte anche italiane, con una economia che non decolla e tagli che è sempre più difficile immaginare. Si dice per l’estate dovrebbe arrivare una maxi manovra correttiva da 10 miliardi e che, fosrse, non sarà neanche sufficiente. Attualmente l’epicentro della crisi europea, partita da Atene e con tappe a Lisbona e Madrid, si trova a Berlino, ma non è detto che non possa spostarsi anche verso il nostro Paese. Ieri sull'onda della crisi economica greca sono crollate le borse europee ed oggi arrivano anche i primi dati negativi da Tokio con il Nikkei che chiude a -2.57. In particolare a pesare ulteriormente come un macigno sul futuro ellenico è l'ulterore taglio del rating da parte di Standard and Poor's che ha declassato la Grecia da BBB+ a a BB+ on outlook negativo, praticamente giudicandolo spazzatura. Il Fondo Monetario Internazionale in queste ore sta valutando un piano da 10 miliardi di euro, ma forse queste sono solo pezze calde non solo per la Grecia, ma probabilmente per malati gravi, anche se ancora silenti. Ci allarma, di là dalla bravura di Tremonti e dalle rassicuranti parole del premier, il bollettino emanato da Bankitalia il 15 scorso, secondo cui, da noi la ripresa economica è ancora debole, il PIL lievemente contratto ed i consumi ristagnano, con una contrazione degli investimenti (soprattutto in costruzioni). Inoltre le esportazioni non hanno confermato la lieve ripresa del terzo trimestre del 2009 e nell’insieme della seconda metà dell'anno, l'attività economica ha registrato un'espansione modesta rispetto al semestre precedente. Inoltre, sempre secondo Bankitalia, il clima di fiducia dei consumatori è tornato a peggiorare, riflettendo accresciute preoccupazioni sulla situazione economica e sulle prospettive del mercato del lavoro. La caduta del numero di occupati, che già lo scorso anno si era tradotta in una sensibile contrazione del reddito disponibile, è proseguita nei primi mesi del 2010. La propensione delle imprese a investire risente ancora della riduzione dei profitti e del basso grado di utilizzo della capacità produttiva. Le imprese continuano a segnalare il permanere di difficoltà di accesso al credito, pur se l'irrigidimento delle condizioni di offerta da parte delle banche si è fermato. I fattori alla base della debole dinamica della domanda interna, potrebbero pesare sull'intensità e sui tempi della ripresa e rendere difficile, in questa fase, la posizione del nostro Paese. Come scrive oggi Vincenzo Visco (più volte ministro dell’economia, con Ciampi nel 1993 e dal 1996 al 2000 con Prodi e D’Alema), “negli ultimi due anni il dibattito politico in Italia si è concentrato, e spesso è stato monopolizzato da argomenti che per quanto importanti poco hanno a che vedere con le preoccupazioni e le aspettative di fondo degli italiani. I temi economici e sociali sono stati tenuti al margine dell’agenda politica per responsabilità, ma anche per interesse specifico della maggioranza e del governo”. Di fatto, in Italia coesistono oggi e si sovrappongono elementi di crisi strutturale che vengono da lontano, più gli esiti della crisi finanziaria internazionale. Tutto ciò rafforza un processo di impoverimento degli italiani ormai in corso da tempo: se poniamo pari a 100 il Pil pro-capite a parità di potere d’acquisto dei 27 paesi dell’Unione europea possiamo verificare che nel 2000 l’indice dell’Italia risultava pari a 117, di poco inferiore a quello Francia, Germania e Regno Unito, per il 2010 lo stesso indice è previsto al livello di 98,6, molto distante ormai da quello dei grandi paesi europei e più prossimo al 95,6 della Grecia, o la 93,4 di Cipro. A ciò si aggiunge la situazione dei conti pubblici e del debito pubblico che è andata peggiorando sistematicamente durante i governi della destra, tanto che il surplus primario si è trasformato in deficit, e la spesa primaria che era scesa al livello minimo del 39,9% nel 2000 ha raggiunto il 48% del Pil nel 2009, mentre per il 2010, in assenza di correzioni si prospetta un disavanzo di quasi un punto superiore a quanto ipotizzato dal governo, e un debito che torna ai livelli dei primi anni ’90, vanificando gli sforzi di un decennio, e riproponendo ex novo la questione del risanamento finanziario. Si aggiunga a ciò che la disoccupazione è all’11% e, ancora, che l’Italia, insieme a Grecia, Portogallo, Spagna e Irlanda, presenta un deficit rilevante e crescente della bilancia dei pagamenti ( oltre 2 punti di PIL), che era in pareggio nel 2000. Si aggiunga a ciò, come nota su Il Denaro Felice Ruscillo, che vi è una crisi diversificata fra Nord e Sud Italia, con una situazione catrastrofica, circa investimenti e gestione delle risorse, nel nostro Mezzogiorno, in cui, ad una situazione economica difficile, si associa una quadro sociale ugualmente allarmante, con una continua perdita delle risorse umane più giovani e qualificate (in dieci anni dalle regioni meridionali sono andate via circa 700 mila persone, un progressivo invecchiamento della popolazione, una mancata integrazione degli stranieri, un livello di disoccupazione che supera il 20%). Nel Sud, la perdita del patrimonio imprenditoriale è aggravata da un clima generale di incertezza, soprattutto per la mancanza di segnali dal mercato, con una crisi che, in sostanza, ha rimarcato tutti gli insuccessi che negli anni si sono accumulati nelle politiche di sviluppo. Infatti, se consideriamo il quinquennio prima della crisi, 2000-2005, tutte le regioni obiettivo 1 in Europa, hanno avuto un tasso di sviluppo intorno al 3% mentre la media comunitaria è stata intorno al 1,9%. Inoltre, le stime Svimez evidenziano come nel Sud lo sviluppo non ha superato 0,6%, dato confermato della Banca d'Italia, dalla quale emerge che l'utilizzo delle risorse previste dalla politica di coesione ha determinato nelle regioni convergenza un incremento delle crescita in termini di Pil di circa mezzo punto, nel sud Italia l'incremento non ha superato lo 0,25%. Un sistema produttivo già strutturalmente debole è stato colpito, in modo violento, durante una fase di transizione già di per sé molto difficile. Infatti, il mutato contesto competitivo, dovuto alla grande dinamicità di paesi emergenti come la Cina e l'India, ha ulteriormente ridotto la capacità competitiva delle imprese meridionali. Il quadro economico sociale delle Regioni è il risultato di politiche non adeguate: le politiche di sviluppo per il meridione si sono dimostrate inefficienti sia dal punto di vista quantitativo sia qualitativo. Dal punto di vista qualitativo basti pensare alla presenza di importanti eccellenze produttive che non si sono trasformate, come in altri contesti, in sistema, rimanendo situazioni isolate e per queste strutturalmente deboli. L'altro elemento, che ha inciso soprattutto su indicatori di tipo infrastrutturale, è una progressiva riduzione della spesa pubblica nelle aree di convergenza, dato questo che smentisce le considerazioni che vedono il Sud come “spugna” di risorse nazionali. I dati Svimez (vedi: rimarcano una caduta, negli ultimi dieci anni, di quasi 6 punti percentuali della spesa in conto capitale, annullando di fatto gli effetti che avrebbero dovuto creare le risorse comunitarie. Inoltre, la spesa pubblica, soprattutto quella per investimento, ha raggiunto livelli bassissimi, basti pensare che le ferrovie investono al Sud solo il 21% delle proprie risorse. Se questo è lo scenario, è difficile prevedere una ripresa vera di competitività delle Pmi in questa fase, senza la presenza di politiche mirate.