L’Europa al di là  del PIL: Benessere e Uguaglianza

di Marianna Madia

L’aumento del Pil, la diminuzione del Pil, un Pil stazionario. Non si contano le volte in cui i mezzi di informazione, nelle notizie politiche ed economiche, riportano titoli come questi. Tutto ruota intorno al Pil. Anche da un punto di vista mediatico. Se ha il segno “più” le cose vanno bene, se cresce poco o scende a zero c’è da preoccuparsi, se ha il segno meno allora è una catastrofe.

L’indicatore del valore complessivo dei beni e servizi prodotti all'interno di un Paese fu inventato negli anni Trenta negli Stati Uniti, in piena grande crisi. Pochi anni dopo il suo inventore Simon Kuznets dichiarava che: “il benessere di una nazione non può essere facilmente desunto da un indice del reddito nazionale”. A oltre settanta anni di distanza è ancora questo il punto. Produrre di più, crescere, essere più “ricchi” significa necessariamente stare meglio?

Ci sono altri indicatori – e quindi altre politiche da adottare – che stabiliscano quando una società raggiunge un maggior grado di benessere? Molti, studiosi e politici, hanno sfidato il Pil come reale indicatore dello sviluppo. Uno dei contributi più interessanti viene da un recente studio di due ricercatori britannici, Richard Wilkinson e Kate Picklett. Nel loro volume The Spirit Level: Why Mre Equal Societies Almost Always Do Better, i due autori dimostrano che, in molti casi nelle economie avanzate, crescita e uguaglianza si trovano agli opposti. Quando la crescita si consuma ai danni dell’uguaglianza le condizioni di vita all’interno del sistema peggiorano, anche se gli indicatori economici tradizionali – come il Pil – mostrano il segno positivo. Più una società è ineguale – cioè con ampie differenze di reddito e opportunità tra le diverse classi e gruppi sociali – e più aumentano i problemi. Per tutti. L’aspettativa di vita diminuisce, la violenza cresce, le condizioni di salute peggiorano, le situazioni di marginalità aumentano. Le relazioni tra individui e gruppi sociali si deteriorano, con danno dell’intera collettività. Quindi più uguaglianza vuol dire più benessere. Per sapere se una società sta bene occorre dunque “misurare” l’uguaglianza.

Alcuni esponenti politici europei hanno cominciato a farlo. Il presidente Sarkozy ha messo all’opera una commissione con nomi di grande importanza: Joseph Stiglitz, Amartya Sen, Jean Paul Fitoussi. La commissione non chiede l’abrogazione del Pil. L’indicatore di Kuznets rimane importante per valutare le performance di un sistema economico. Tuttavia va integrato con statistiche che rendano conto del benessere sociale e ambientale, nelle sue diverse e complesse dimensioni. A settembre del 2009, quasi contemporaneamente al rapporto francese, la Commissione Europea ha lanciato un’importante comunicazione agli Stati membri. Si riconosce che: “PIL è un indicatore fondamentale per valutare l'efficacia dei piani di ripresa dell'Unione europea e dei governi nazionali”. Tuttavia l’esigenza di costruire “un'economia a bassa emissione di carbonio, che faccia altresì un uso efficiente delle risorse” e di proteggere coloro che “sono maggiormente colpiti dalla crisi e i più deboli della società” deve portare l’Europa a dare vita a “indicatori più completi della sola crescita del PIL, che includano in maniera concisa le conquiste sociali ed ambientali”. La realizzazione di questi indicatori, di concerto con l’Ue, è compito degli Stati membri.

Credo che un tema come questo meriti – in Italia come è stato in Francia – un esame approfondito, che possa portare presto a una proposta legislativa. Per quanto riguarda la situazione del nostro Paese, uno dei massimi indicatori di diseguaglianza riguarda, certamente, il mondo del lavoro: a parità di mansioni e responsabilità, il lavoratore “debole” guadagna meno, non ha tutele, non ha pensione e viene formato di meno. Tale disparità, indicata spesso come dualismo del mercato del lavoro, dovrebbe entrare nei nuovi indicatori del benessere sociale.

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