Bradley Burston è uno che scrive e ha dichiarato che lavorare per la pace è una forma di preghiera. L’articolo che segue è suo, apparso su Haaretz il 12 gennaio 2010.Leandra Negro come sempre si è resa disponibile per la traduzione. Aveva colpite entrambe il titolo, la premessa, gli antefatti.
Doriana Goracci
La prossima settimana o la settimana successiva, Barack Obama potrebbe leggere nei report dell’intelligence che i battaglioni israeliani tank si sono spostati nel sud e nell’ovest lungo le strade israeliane e che intere brigate di fanteria si sono accampano nell’area occidentale di Negev.
Il conto alla rovescia della Seconda Guerra di Gaza è iniziato prima del previsto. Datiamo l’inizio, se gradite, a domenica scorsa, mentre leggiamo una fredda e terrificante analisi di Yom Tov Savia, ultimo comandante militare israeliano della Striscia di Gaza e delle adiacenze di Negev. O datiamolo, se preferite, secondo l’assioma della contemporanea storia israeliana che legge sul quotidiano: una guerra futura è essenziale, ma è inevitabile il momento in cui si dovrà dare maggior peso alle forze di difesa israeliane, come dichiara il generale.In alternativa, si può datare la nuova guerra al momento dalla selettiva amnesia che permette agli esponenti politici israeliani di dar credito all’illusione che Hamas possa essere invaso fino a morte compiuta.
Tutto questo e molto altro sono il frutto di un’intervista che Samia ha rilasciato alla Radio dell’Esercito Israeliano questa settimana, che dovrebbe concedere una pausa, non solo ai palestinesi e agli israeliani che potrebbero essere le future vittime della Seconda Guerra di Gaza, ma anche a Washington.
Se l’ultimo anno di brutale combattimento può essere di indicazione – e c’è qualche ragione per credere che lo è – l’intera guida per impedire che lo strisciante confronto Israele-Hamas scoppi a breve nella Striscia sta al capofila Obama che sta già affogando in un mare di priorità.
Un’altra guerra a Gaza, di questo stiamo parlando e non di una semplice quanto molto amara offensiva, che potrebbe non solo assestare colpi letali a quel che resta della credibilità morale di Israele, ma potrebbe anche scalfire e danneggiare l’offensiva politica militare di Obama in Iraq, in Afghanistan e, sulla scia, in Yemen.
Se Obama ancora culla le speranze di avviare un processo di pace tra Israele e i Palestinesi, il suo primo obiettivo dovrebbe essere di disinnescare il piano di guerra prima che inghiotta di nuovo Gaza – e, questa volta, anche Tel Aviv. Com’è palese, la guerra a Gaza ha cambiato il panorama politico di Israele e non in favore di Obama.
Il ritiro del 2005 da Gaza, con il suo esito in termini di lancio di missili contro Negev e l’assenza di qualunque pace condivisa, ha scatenato una tempesta sulla sinistra israeliana. Ma era l’offensiva di Gaza un anno fa, una guerra sostenuta all’inizio anche dallo stesso Meretz, ormai sul viale del tramonto. È stata la fine di Meretz, la fine del Partito Laborista, la fine dell’alleanza di sinistra con i partiti arabo-israeliani.
Barack Obama può fermare l’imminente Guerra a Gaza? Solo se si muove presto. E solo se i suoi consiglieri studiano e applicano con attenzione le lezioni che ci ha lasciato l’ultima guerra, in particolare il periodo che l’ha immediatamente preceduta.
Un logico punto di partenza è un’altra analisi, altrettanto trasmessa dalla stazione radio delle Forze di Difesa Israeliane, cinque giorni prima dell’inizio dell’ultima guerra. Al microfono era Shumuel Zakai, un generale di brigata in pensione che ha prestato servizio sotto Samia e successivamente ha avuto il comando della Divisione Gaza dell’esercito israeliano.
Zakai ha commentato dell’urgenza fondamentale di rivedere come Israele dovrebbe confrontarsi con Hamas. In sintesi, “lo Stato di Israele dovrebbe capire che Hamas comanda a Gaza, è un fatto ed è con questo governo che dobbiamo raggiungere una situazione di calma”.
Obama dovrebbe assumere il ruolo di creatore di pace, ha le risorse e le condizioni che un anno fa erano indisponibili.
Non c’è alcuna coincidenza, naturalmente, che propone all’amministrazione Obama un test cruciale in corrispondenza dell’anniversario dell’assunzione del suo ufficio. “Piombo fuso”, opportunamente lanciato nell’interregno tra l’amministrazione uscente di Bush e l’attuale ingresso di Obama alla Casa Bianca, è terminata con un cessate il fuoco unilaterale da parte di Israele giusto 48 ore prima che il presidente eletto assumesse l’incarico.
All’epoca, l’impopolare primo ministro, travolto dallo scandalo e totalmente impopolare, cercò disperatamente di recuperare la sua reputazione cercando di giustificare i grossolani errori militari che hanno completato il suo record di malefatte personali, sfruttando il vacuum al potere di Washington, mettendo in piedi una guerra che è fallita nel raggiungimento di ogni obiettivo prefissato e che ha tacciato Israele, agli occhi del mondo, come un impietoso aggressore.
Questa volta, l’amministrazione Obama ha in mano un numero di elementi a suo favore. C’è Benjamin Netanyahu, che mentre non sopporta di condividere il potere, vanta un governo di insolita stabilità – che ha mostrato le sue preferenze per la tregua rispetto al caos – e ha un opposizione che appoggerebbe senza dubbio uno sforzo chiaro per evitare la guerra. Il governo lavora anche all’ombra del Rapporto Goldstone, e non desidera averne una nuova versione. Infine Netanyahu ha anche dimostrato una certa apertura anche se a malincuore verso le richieste della Casa Bianca, come il parziale congelamento degli insediamenti.
Inoltre c’è l’ultima dichiarazione di Hamas, che ha promesso ai suoi elettori di far rilasciare un prigioniero in cambio del soldato Gilad Shalit dell’esercito israeliano e, avendo alzato le aspettative nel territori occupati, lo ha già consegnato. Hamas, riesce sempre a sintonizzarsi con l’opinione pubblica palestinese, può anche avviare un’altra devastante campagna di rivendicazione nella Striscia cosi presto subito dopo Piombo Fuso.
Un altro attore in ruolo potenzialmente proattivo e nuovamente in definizione è l’Egitto, che fino a ora ha guardato con passività, e forse apprensione, i suoi confini. Gli analisti hanno riferito del progetto dell’enorme muro di acciaio che sarà collocato al confine tra Gaza e le pendici egiziane del Sinai come un messaggio rivolto ad Hamas e ad Israele.
Con le allusioni velate di Samia che con una nuova guerra l’esercito israliano potrebbe conquistare ed occupare il tunnel sotterraneo Corridoio di Filadelfia che confina con il nuovo muro, il Professore Yoram Metal dell’Università di Gurion-Ben di Negev nota questa settimana che a Israele “Il messaggio è che l’Egitto è andato fuori del confine e riterrà qualunque avvicinamento come un attacco alla sua sicurezza nazionale”.
“Ad Hamas l’Egitto dice “non accetteremo nessuna condizione che conduca alla creazione di un mini stato nella Striscia di Gaza” e verranno dunque chiusi quasi ermeticamente i confini di Rafiah e sarà eretto il muro d’acciaio nelle viscere della terra”.
Uno delle lezioni più importanti che ci vengono dall’ultimo anno di spargimento di sangue è che guerra o no, Hamas e solo Hamas deciderà se e quando i missili saranno lanciati da Gaza verso Israele. I missili hanno volato per tre settimane nel corso della Guerra e si sono fermati solo all’ordine di Hamas, diverse ore dopo che Israele ancora bombardava.
Il maggiore esponente delle vittime dei missili, David Buskila, ha dichiarato questa settimana che “dopo l’operazione piombo fuso, abbiamo capito che la soluzione militare non può esser l’unica, è una soluzione che può creare brecce tra escalation di violenza”.
Alla fine, Israele detiene forse la carta più importante da giocare, un passaggio che potrebbe dipendere da un’informale stretta di mano con Obama alla Casa Bianca. Con la mediazione di una terza parte internazionale, Israele potrebbe offrire una possibilità, come la tregua del 2008, alleviando significativamente l’embargo sulla Striscia.
Per decidere di farlo, comunque, Israele dovrebbe anche abbandonare il suo credo di lungo corso nel potere delle armi e far leva perché Gaza si pieghi alla sua volontà. E ciò significa anche abbandonare ragionamenti come questi precisamente:
Samia: “lo Stato di Israele non agisce per sostituire il regime di Gaza. Lo Stato di Israele agisce perché è che Hamas che controlla la Striscia di Gaza e la base della sua politica è distruggere lo Stato d’Israele e bombardare le scuole e gli asili e portare gli attacchi terroristici nei ristoranti.
Per lo Stato di Israele, non importa se Hamas si ritiene un regime o un’organizzazione terroristica o se è un’organizzazione terroristica, dichiara di volere annientare lo Stato di Israele e tanto basta.
Se allo stesso posto salissero o prendessero il potere i moderati, sarebbe buono per noi, noi ne saremmo felici”.
By Bradley Burston Haaretz 12 gennaio 2010
traduzione di Leandra