Ciao, Dario!

È scomparso lunedì mattina all'Ospedale Civico di Lugano Dario Robbiani, giornalista e uomo politico ticinese famoso ben oltre i confini del suo Cantone e della Confederazione.
Era popolarissimo presso la comunità emigrata per la trasmissione “Un’ora per voi”, condotta insieme a Corrado e Mascia Cantoni.
Si era formato alla scuola politico-giornalistica di Guglielmo Canevascini ed Ezio Canonica, storici esponenti del socialismo di lingua italiana.
Aveva svolto un ruolo di grande rilievo nella battaglia contro la xenofobia anti-italiana.
Dario Robbiani aveva fondato e diretto il telegiornale svizzero “Telegiornale-Téléjournal-Tagesschau” durante tutta la sua prima fase a Zurigo. In seguito aveva fondato e diretto “Eurovisione-News” a Ginevra, “Euronews” a Lione e infine “Svizzera 4” a Berna.
Negli ultimi anni era notista politico e di costume presso il settimanale “Il Caffè”.
La sua carriera politico-parlamentare l'aveva condoto alla vice-presidenza del Partito Socialista Svizzero e alla presidenza della delegazione parlamentare socialista presso le Camere federali.
Autore di diversi saggi, tra cui: ”1918: il resto seguirà. Socialisti italiani in Svizzera” e “Ciao Ezio!” (biografia di Ezio Canonica scritta a quattro mani insieme a Karl Aeschbach).
Negli ultimi anni Dario Robbiani si era molto dedicato alla memorialistica. Ta le sue pubblicazioni in quest'ambito: ”Caffelatte, storie familiari e paesane di quando non c’era la televisione”, “Rosso Antico, in politica è permesso sorridere” e “Cìnkali. Ci chiamavano Gastarbeiter, lavoratori ospiti, ma eravamo stranieri, anzi cìnkali”.
Di Cìnkali, che uscì presso le Edizioni ADL ed ebbe grande successo, ripubblichiamo qui il decimo capitolo “La targa della bontà”.

La targa della bontà

DARIO ROBBIANI
NOVAZZANO 1939 – LUGANO 2009

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Un gruppo di emigrati italiani mi ha attribuito un premio: la targa della bontà. Era il 1971. Ho riflettuto un poco prima di accettare. Sono contrario ai premi, alle medaglie, alle onorificenze e ai titoli. Non per snobismo (e chi sono? Jean-Paul Sartre, che rifiuta sdegnosamente il Nobel?) o per falsa modestia (ah, i mattacchioni che si dicono onorati e confusi, che non se l’aspettavano!) ma per principio.

Non sono neppure uomo di principi. Della così detta morale faccio volentieri a meno, confortato da Bertrand Russell: «La moralità è una strana mescolanza di utilitarismo e di superstizione».

Però a qualche principio mi attengo. Credo, per esempio, all’amore, alla giustizia, al coraggio, alla libertà e all’intelligenza. Combatto, prima di tutto in me stesso, l’intolleranza, la prepotenza e la supponenza. E anche la vanagloria, che di premi si nutre. Poi, l’attuale è un’epoca di patacche. Se le appuntano al petto, al collo e alla cintura anche i giovani pittorescamente rivoluzionari, e non sempre per ironica contestazione. Per restare al nostro mondo, quello dell’emigrazione: quanti premi! Associazioni e premi: la vita collettiva della comunità italiana in Svizzera soffre d’associazionismo e di premismo. Brutte malattie che spesso trasformano l’onorificenza in una citazione degli organizzatori attraverso i media.

Ho accettato il premio perché conoscevo chi mi premiava (la Serenissima), e so che la targa è soltanto un aspetto, neppure il più importante, dell’attività di questo gruppo che riunisce italiani e svizzeri, perseguendo una maggior comprensione fra le due comunità.

Quale cronista, presenziai al battesimo della Serenissima. Di James Schwarzenbach non si parlava ancora, ma di Albert Stocker, il profumiere che per primo inquinò la vita svizzera col mefitico spray dell’odio razziale e della presunzione nazionalista. La televisione, fedele alla sua consegna d’informare completamente e obiettivamente, diffuse un’intervista con Albert Stocker. Il presidente della Serenissima, Alberto Carrara, scrisse alla televisione: «Gli italiani sono rimasti sconcertati ascoltando lo sproloquio dell’Antistranieri. Con questo signore, però, non abbiamo nessun rancore, anzi gli siamo riconoscenti, poiché abbiamo capito che la buona volontà non basta, dobbiamo cercare i motivi degli attriti fra svizzeri e italiani, eliminarne nel limite del possibile le cause, stabilire un contatto amichevole: noi emigrati italiani dobbiamo dimostrare agli svizzeri che non apprezziamo soltanto i loro franchi, ma desideriamo la loro stima, la loro amicizia, perseguiamo un miglior concetto di fraternità e di comprensione che superi le frontiere fisiche e mentali, create da preconcetti e da carattere e concezione della vita diversi».

La Serenissima, quale risposta agli xenofobi, fondò un gruppo di donatori di sangue: «Per dimostrare concretamente che l’ammalato non ha passaporto e il gruppo sanguigno non è determinato dalla nazionalità, che gli emigrati hanno un cuore e non sono soltanto macchine operose». Sono parole di Alberto Carrara.

Cinquanta “avisini” (membri dell’Avis, l’associazione italiana dei volontari del sangue), membri della Serenissima, offrirono il proprio sangue all’ospedale di Baden.

«Un gesto» disse Carrara al tiggì «che nella sua sensibilità e profondo significato richiederebbe discrezione e silenzio, ma che vogliamo segnalare all’opinione pubblica svizzera per dimostrare che gli italiani non sono soltanto accoltellatori, stupratori, chiassosi e maleducati».

Ritrovai la Serenissima e il gruppo donatori di sangue di Baden in una notizia: Salvatore Monaco, ospedalizzato per una grave malattia, verrà rimpatriato per desiderio dei genitori. Ma ha bisogno di continue trasfusioni. Un disperato appello dall’Italia: manca il suo gruppo sanguigno. Gli avisini di Baden offrono il loro sangue, trasportato d’urgenza da una staffetta della polizia.

L’emigrazione è piena di lacrimevoli storie. Il povero emigrato commuove. La signora per bene e i signori dal cuore d’oro si emozionano. I giornali ne ricavano titoli e notizie struggenti. Questi, però, sono episodi che vanno oltre il gusto delle lacrime e il piacere della commozione. Sono qualcosa di più di un atto di carità cristiana. Sono la testimonianza concreta della solidarietà umana.

E per questo che ritengo la Serenissima e il gruppo Avis che le è associato autorizzati a distribuire un premio della bontà. Ma io sono abilitato a riceverlo?

La bontà è svalutata. Essere ricchi, essere furbi, saper vivere, arrangiarsi, ecco ciò che conta. Ma essere buono? Quasi una patente di stupidità!

Ho cercato nel dizionario la definizione di bontà. Trovo che è gentilezza, cortesia, accondiscendenza, indulgenza, mitezza e mansuetudine. E allora, siccome certi colleghi mi chiamano l’orso, talaltri il padrino, mia moglie può testimoniare gli scatti d’ira, metto i piedi sulla scrivania, ho un caratterino, per arrivare a certi scopi non mi piego e non scodinzolo: forse, merito la targa della cattiveria!

Ma di bontà trovo due sinonimi: umanità e generosità. E il vocabolario precisa: «Qualità di chi si adopera per il bene altrui».

Noi tutti nella vita cerchiamo d’essere felici. E un modo d’esserlo è quello di chinarsi sulle sofferenze degli altri. Io sono nato in un paese fortunato che non conosce guerre e miseria. È triste perché appunto ha disimparato a soffrire e fatica a essere felice.

Non è vero che in Svizzera solo gli stranieri sono malinconici e disperati. La solitudine colpisce prima di tutto il popolo di signori, in tutte le sue forme, dall’alienazione all’isolazionismo, dai disturbi neurovegetativi alle manie suicide, dalla frustrazione all’alcoolismo, alla droga.

Gli emigrati hanno portato le miserie di una società contadina, i problemi della paga incerta e non soltanto dell’auto a rate, le angosce di chi deve sbarcare il lunario e non di chi si ribella all’oppressione del benessere. Gli emigrati sanno essere felici adoperandosi per chi sta peggio.

Adoperarsi, ma in che modo? Sono giornalista e il mio compito è semplice, anche se non sempre facile o comodo. Registro dei fatti e delle situazioni. Lascio ad altri, ai politici, sindacalisti, sociologi ed economisti, di proporre le soluzioni e di dare una risposta alle denunce.

Dobbiamo imparare, svizzeri e italiani, a giudicare in modo nuovo l’emigrazione, evitando il pietismo e il vittimismo. Si tratta di accettare le leggi economiche e sociali che rendono irreversibili i fenomeni migratori. La società contadina scompare o è dislocata. La società industriale abbisogna di manodopera. Le frontiere non possono opporsi a questo processo socio-economico che è diventato libera circolazione dei cittadini europei e emigrazione clandestina di extracomunitari disperati.

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