L’eterna corsa newyorkese e una speranza

Nella Grande mela tutto circola incessantemente in un vuoto fatto di auto e luci che proliferano indifferenti, nella purezza di una beata primitiva liquidazione di ogni genere di cultura.
New York è il simbolo dell’eccesso, tutto è consumato ad una velocità impressionante, la verticalità dei palazzi che si ergono maestosi avvolge lo spazio di una surreale eccentricità.
La stravaganza di stili, di idee, di mode, irrompe attraverso l’invasione delle insegne luminose dei cartelloni pubblicitari che brillano nella loro spettralità senza profondità. Un oceano di colori artificiali e immagini che implodono nel vuoto di senso su cui proliferano. Il modello imprenditoriale statunitense sostenuto dai baby boomers ha da sempre rappresentato il sogno da realizzare ed il mito da emulare.
L’iperproduzione, il benessere ostentativo, l’eterna corsa consumistica, l’obesità di una civiltà che divora tutto, senza trovare ostacoli, è pervasa oggi da un senso di insoddisfazione chiamato crisi economica.
Manager, broker di Wall Street, pubblicitari di successo, in meno di due anni hanno perso tutto e lottano per diventare commessi, dog-sitter, venditori ambulanti ed evitare così il collasso.
E’ questo il futuro che immaginavamo?
Le profetiche parole pronunciate il 18 marzo del 1968 da Robert Kennedy tre mesi prima di essere assassinato acquistano oggi un valore ancora più forte:”Non troveremo mai un fine per la Nazione o una personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni, non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow Jones, né i successi del Paese sulla base del PIL. Il PIL cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione, della bellezza della loro poesia, non misura la nostra saggezza o conoscenza, misura tutto, tranne ciò che rende la vita degna di essere vissuta”

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