Noi emigranti

«Non si può parlare dell’unità d’Italia, né pensare di celebrarla, senza prendere in considerazione la storia dell’emigrazione italiana. È parte fondamentale del nostro passato. Da tempo si parlava di realizzare questo museo, oggi, finalmente, è realtà». Così il direttore Alessandro Nicosia commenta la nascita del Mei, Museo Nazionale dell’Emigrazione Italiana, che è stato appena inaugurato negli spazi del Complesso del Vittoriano a Roma. Un museo dall’impianto moderno, che accanto alla documentazione tradizionale – foto e documenti – aggiunge filmati e registrazioni, ma anche focus specifici, studiati per colpire l’immaginario ed incuriosire il visitatore, nel tentativo di portarlo ad indagare il tema per raggiungerne l’essenza. O, forse, le “essenze”.
La struttura, al di là della valorizzazione garantita dall’esposizione del materiale, ha l’obiettivo di mettere a sistema, per la prima volta, gli archivi e le collezioni delle realtà locali, tra istituzioni, associazioni e privati, per tratteggiare le linee guida di un fenomeno articolato e complesso, inviando al contempo un messaggio chiaro agli italiani in Italia e a quelli che vivono all’estero, «affinché – ha specificato il ministro degli Affari Esteri, Franco Frattini, in occasione dell’apertura – sentano chiaro un senso di appartenenza a un’Italia che li considera parte di un sistema allargato e coordinato, che li riconosce come un patrimonio capace di aiutare l’immagine italiana a crescere». E l’immagine dell’Italia, in effetti, nel museo e grazie ad esso, cresce, uscendo dalle generalizzazioni dei libri di storia, per entrare nel vivo di casi e famiglie, travalicando il concetto di emigrazione per analizzarne l’“affetto”. È quest’ultimo, tra memoria ed emozione, il vero filo conduttore della collezione permanente, nata da una lunga ed attenta ricerca scientifica ma anche dal desiderio di molti di poter vedere finalmente riconosciuta la storia della propria famiglia. «Oggi il museo espone circa cinquecento oggetti – prosegue Nicosia – ma, in realtà, la risposta di associazioni e privati è stata straordinariamente entusiasta e ha portato il potenziale della collezione museale già a circa duemila pezzi. Per questo motivo, ogni sei mesi, parte dell’esposizione sarà cambiata. Ma è solo l’inizio. La notizia della creazione del Mei ancora non si è diffusa capillarmente, ci aspettiamo quindi che la collezione aumenti ulteriormente». Il percorso espositivo di carattere storico-cronologico è articolato in cinque sezioni. La prima approfondisce le migrazioni pre-unitarie, analizzando il contesto sociale e politico in cui hanno avuto luogo questi “movimenti”. La seconda prende in esame il fenomeno a cavallo tra Ottocento e Novecento, dal 1876 al 1915, puntando l’attenzione sui suoi aspetti pratici, dal reclutamento allo sbarco, dalle discriminazioni all’inserimento. Si prosegue poi con l’emigrazione tra le due guerre mondiali, in relazione con fascismo, colonialismo e migrazioni interne. Ancora, quella avvenuta nel dopoguerra con la modifiche di “rotte”, legislazione, aspirazione ed organizzazione. L’ultimo capitolo mostra il cambiamento dell’Italia che, da luogo di partenza diventa luogo di accoglienza, meta di molti immigrati provenienti da paesi diversi. Completano il percorso una biblioteca con titoli ad hoc ed una sala per le proiezioni, ora riservata al documentario d’autore “L’emigrazione italiana e il cinema” con interventi, tra gli altri, di Carlo Lizzani, Gabriele Salvatores, Enrico Magrelli e Pasquale Squitieri. Non manca la musica, in una colonna sonora che, di sezione in sezione, con brani delle diverse epoche, contribuisce a completare l’immagine dell’Italia nei suoi diversi periodi. Il Mei che, da molti è stato festeggiato come un traguardo, vuole in realtà, essere un punto di partenza per una politica culturale attenta al passato ma anche al presente dell’emigrazione, che non dimentica la cosiddetta fuga dei cervelli. Così il Mei si propone di diventare una sorta di “marchio” per eventi ed esposizioni sull’emigrazione italiana. «Ci è già stato chiesto di ospitare convegni e momenti di approfondimento sulle diverse realtà regionali – prosegue Nicosia – e, inoltre, stiamo progettando di organizzare esposizioni ad hoc negli istituti italiani di cultura di diversi paesi».
A poco meno di due anni dalle celebrazioni previste per il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia, quindi, il Paese si interroga sul concetto di “italianità”, scoprendolo di fatto molto più ampio di quanto non possa sembrare nella quotidianità. Il sentimento dell’essere italiano non solo prescinde da geografia e distanza, ma anzi sembra nutrirsi di quest’ultima. È nella lontananza, infatti, che molti emigrati hanno scoperto il sentimento di patria, abbandonando la visione locale, per approdare ad una prospettiva più ampia, che interessa l’idea di “italiano”, prima ancora dello spazio che la rappresenta. Se, in passato, l’emigrazione è stata per molti uno strumento di conoscenza e coscienza, che ha portato chi era ormai lontano a superare l’abituale dimensione regionale degli affetti, per guardare su più vasta scala, oggi ripensare al fenomeno e rileggerlo alla luce della cronaca potrebbe e dovrebbe consentire di ampliare ulteriormente la propria visione dell’“io” per approdare ad un “noi” più diffuso, non per questo svincolato dalla consapevolezza della propria identità. La storia prende le mosse da quando ad essere stranieri erano proprio gli italiani, che arrivavano in paesi diversi per cercare fortuna, per approdare all’Italia “fortunata” che accoglie chi lo è meno in una sorta di fratellanza transnazionale fondata sul comune sentimento del “viaggiatore”.
Valeria Arnaldi

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