Una Flexicurity anche in Italia

IDV Staff

Italia dei valori avvia oggi una rubrica di approfondimento economico, che sarà pubblicata a cadenza settimanale, dove verrà commentato un fatto, o un evento, rilevante per l’economia italiana oppure il punto di vista dell'Italia dei Valori su questioni di interesse economico. La rubrica sarà a cura del professor Sandro Trento, docente di economia all'Università di Trento.

Una Flexicurity anche in Italia

Le riforme del mercato del lavoro in Italia hanno accresciuto la flessibilità anche se ciò è stato realizzato soprattutto con riferimento ai nuovi assunti e quindi quasi solo a carico dei giovani. Chi entra oggi nel mercato del lavoro ha molte meno tutele e garanzie di chi vi è entrato venti anni fa. Del resto, la flessibilità ha favorito la creazione di centinaia di migliaia di posti di lavoro, ha consentito di evitare che decine di migliaia di giovani restassero parcheggiati in uno stato di disoccupazione per lunghi anni, ha consentito a tante donne di trovare forme di occupazione compatibili con i loro impegni famigliari.

Un mercato del lavoro flessibile è caratterizzato da elevati flussi di entrata e di uscita, cioè da un più frequente cambio di posto di lavoro. Si lavora in un’azienda per qualche anno poi l’azienda magari attraversa una fase di crisi e licenzia parte dei propri dipendenti che troveranno lavoro presso un'altra azienda.

Queste fasi di passaggio da un lavoro a un altro possono tuttavia durare anche alcuni mesi. Non è detto che si trovi subito un altro lavoro oppure può essere necessario ri-qualificarsi in modo da poter ambire a nuove occupazioni.
Come fa un lavoratore a vivere nelle fasi di attesa tra un lavoro e un altro?
Questa questione è essenziale per far sì che la flessibilità sia percepita come un elemento positivo che rende più fluido il mercato del lavoro e non solo come un fattore di precarizzazione.
Una soluzione è fornita dalla cosiddetta flexicurity, il sistema tipico di alcuni paesi del Nord Europa, che associa flessibilità del lavoro a un sistema universale di protezione contro la disoccupazione. Nei momenti che intercorrono tra un lavoro e un altro chi è rimasto disoccupato riceve un’indennità di disoccupazione che gli consente di vivere fino a quando non trova un nuovo impiego.

La situazione italiana invece è al momento squilibrata. Non esiste infatti in Italia un sistema di indennità di disoccupazione vero e proprio. Vi sono categorie di lavoratori che godono di alcune forme di protezione come ad esempio la Cassa integrazione che però riguarda solo l’industria, la distribuzione commerciale con oltre 50 dipendenti e imprese dei servizi con più di 200 dipendenti. I dipendenti delle imprese più piccole e di altri settori hanno diritto solo a sussidi straordinari disposti “in deroga” dal governo e di entità molto ridotta. I giovani con contratti temporanei ovviamente non hanno diritto alla Cassa integrazione .
Siamo molto lontani dalla flexicurity e questo crea grandi problemi a chi resta senza lavoro in Italia.

In questa fase di grave crisi, di fronte a centinaia di migliaia di lavoratori che perdono il lavoro il governo sta centellinando la Cassa integrazione come se non ci fossero soldi sufficienti.
In realtà, la Cassa Integrazione Guadagni ha un bilancio attivo che è stimabile (al netto delle erogazioni di quest’anno) pari a oltre 10 miliardi di euro. Nel quinquennio 2003-2007 i contributi versati ogni anno dalle imprese per la Cassa Integrazione ordinaria sono stati tra i 2,3 e i 2,8 miliardi di euro, a fronte di questi versamenti le prestazioni erogate dalla Cassa sono state tra 0,2 e 0,5 miliardi l’anno. Nello stesso periodo la Cassa Integrazione straordinaria (quella che viene erogata secondo decisioni del governo in presenza di crisi di settore) i contributi hanno oscillato tra 1 e 0,8 miliardi di euro mentre le erogazioni sono state pari a circa la metà di quei versamenti. Il dato relativo al bilancio della Cassa nel 2008 non è ancora disponibile ma è possibile che si sia chiuso in pareggio, mentre nel 2009, vista la grave crisi, si avrà probabilmente un disavanzo ma non superiore al miliardo di euro. Un passivo quindi molto inferiore all’attivo accumulato negli anni precedenti e incassato dallo Stato.

E’ allora il momento di utilizzare questa grande quantità di soldi accumulati dalla Cassa integrazione (10 miliardi di euro) per porre mano a una vera riforma degli ammortizzatori sociali creando un sistema universale di indennità di disoccupazione che assicuri a tutti i lavoratori (di qualunque settore, di qualunque tipo di imprese, di qualunque età), rimasti senza lavoro, un trattamento pari all’80 per cento della retribuzione, eliminando le complicazioni burocratiche. Una quota del trattamento andrebbe posta ovviamente a carico delle imprese (25-30 per cento) per far sì che non utilizzino con troppa leggerezza lo strumento del licenziamento.

Il sistema attuale della Cassa integrazione presenta uno squilibrio tra il contributo pagato dalle imprese sulle retribuzioni lorde dei dipendenti e l’entità complessiva delle prestazioni che poi vengono erogate al momento del bisogno. Per la Cassa ordinaria i contributi versati superano ogni anno di quattro o cinque volte l’erogazione. Il paradosso è che il contributo è maggiore per le imprese più piccole (quelle con meno di 50 addetti) rispetto alle imprese più grandi. Ciò avviene anche se le piccole imprese utilizzano meno frequentemente la Cassa Integrazione. Il sistema della Cassa rappresenta una sorta di assicurazione (contro la disoccupazione) che le imprese pagano però a un prezzo elevatissimo. Andrebbe quindi rivisto il sistema con il quale l’Inps applica il “premio” assicurativo commisurandolo al rischio effettivo, magari con un sistema di bonus-malus che in media dovrebbe comportare una diminuzione del costo del lavoro almeno dell’uno e mezzo per cento.

Creare un sistema generale di indennità di disoccupazione è indispensabile non solo in questa fase di grave crisi ma in generale per rendere sopportabile un mercato del lavoro sempre più flessibile

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