Il ricordo di quella che è stata la più grande disgrazia sul lavoro della storia della Svizzera moderna si affievolisce ogni anno di più. A tenerlo ancora vivo provvede un gruppo di italiani e svizzeri, con alcuni sopravvissuti della catastrofe, che ogni anno in questo periodo commemorano sul posto quel triste evento del 30 agosto 1965.
A Mattmark, sopra i 2000 metri, nell’alta valle di Saas, nel Vallese, si stava costruendo una delle più grandi dighe della Svizzera. La diga in costruzione era di quelle cosiddette «in terra», ossia costituita prevalentemente di pietrame e altri materiali sciolti, prelevati sul posto dalle morene formate nel tempo dal sovrastante ghiacciaio Allalin, uno dei più importanti della Svizzera.
Data la base (370 m) e l’altezza (120 m) della diga, il suo riempimento richiedeva una quantità enorme (circa 10 milioni e mezzo di metri cubi) di materiale. Per questa ragione il cantiere era stato allestito ai piedi della diga, proprio nel cono di deiezione del ghiacciaio, tra le due morene principali.
Per poter terminare i lavori prima del sopraggiungere del rigido inverno si lavorava a pieno regime, a turni, giorno e notte, con decine di scavatrici, ruspe, bulldozer, camion sempre in azione. Su 600-700 lavoratori, due terzi erano italiani.
Improvvisamente, alle 17.30 di lunedì 30 agosto 1965, poco prima del cambio dei turni, si staccò dal ghiacciaio Allalin un’enorme massa di ghiaccio e pietre (forse un milione di metri cubi) travolgendo fragorosamente gran parte del cantiere e uccidendo 88 lavoratori, di cui 56 italiani.
Le conseguenze avrebbero potuto state ancora più spaventose ed il numero delle vittime almeno due volte più grande. Era infatti in questo cantiere che i subentranti, provenienti dal campo base situato a valle, a circa sei chilometri dalla diga, prendevano le consegne da chi aveva terminato il turno. I lavori furono subito interrotti. Il recupero richiese diversi mesi, anzi l’ultimo corpo venne ritrovato e identificato quasi due anni dopo, il 18 agosto 1967, pochi giorni prima dell’inaugurazione della diga.
Mi pare opportuno rievocare quel tragico evento, non solo per onorare le numerose vittime, ma anche per ricordare che quell’evento ebbe un impatto grandissimo nella popolazione svizzera e tra la collettività italiana.
La disgrazia di Mattmark, per la sua gravità e per la sua copertura mediatica, fece dell’immigrazione in Svizzera un problema nazionale. In quegli anni, molti svizzeri avevano teso l’orecchio alla martellante propaganda di alcuni movimenti xenofobi della Svizzera tedesca. A seguito della recente tragedia, però, tutti ebbero occasione di rendersi conto non solo del numero di stranieri presenti in Svizzera e dei problemi che comportavano, ma anche della loro utilità per il lavoro che spesso svolgevano in condizioni difficili e pericolose e per il benessere che procuravano pagando spesso un prezzo altissimo. Molti, come il giornalista Alfred Peter (autore nel 1962 di una serie di articoli sul contributo degli italiani), si rendevano conto che «ohne Italiener kein Wohlstand» [senza gli italiani non c’è benessere].
E poiché nella catastrofe insieme a 65 stranieri erano periti anche 23 svizzeri, forse per la prima volta dal dopoguerra si cominciò a parlare di un destino comune e della necessità di collaborare. L’allora presidente della Confederazione richiamava i concittadini alla solidarietà e il futuro presidente della Confederazione Nello Celio, qualche anno più tardi, sosteneva che «l'interesse pubblico vuole che ognuno faccia sentire la sua partecipazione alla vita dello Stato…».
Stava prendendo forma e consistenza proprio nella metà degli anni Sessanta il problema dell’integrazione degli stranieri. Anche le autorità italiane cominciavano a rendersi conto che gli italiani che emigravano in Svizzera vi restavano molto più a lungo di quel che avevano previsto. Per questo era opportuno che i bambini in età scolastica frequentassero le scuole svizzere e che gli adulti frequentassero corsi di formazione professionale.
Dal canto loro, gli immigrati italiani, ormai oltre il mezzo milione, prendevano sempre più coscienza che il tipo di emigrazione stava cambiando e s’imponevano scelte radicali, soprattutto in merito all’integrazione. Molti maturarono la scelta del rientro definitivo in Italia, la maggioranza quella di restare e, possibilmente, d’integrarsi. Scelte entrambe difficili, ma soprattutto quella di restare. Senza un’adeguata preparazione e in un ambiente parzialmente ostile o percepito come tale, la strada da percorrere verso l’integrazione fu lunga e piena di ostacoli. Il più grande fu la diffusa xenofobia degli anni Sessanta e Settanta.
Giovanni Longu
Berna 03.09.2009