I testi che inoltro sono entrambi di Patrizia Fiocchetti, attiva nel Cisda di Roma,Coordinamento italiano Sostegno Donne Afghane. Il primo che vi allego è un commento-reazione sull' analisi di George Friedman direttore di “Stratfor”.Chi sia Patrizia Fiocchetti, lo racconta lei nel testo che segue, sicuramente più informata di noi italiane come lei.
Vorrei solo precisare che non si tratta di un copia-incolla casuale, ma di un passa parola tra donne, come questi testi che mi ha inviato Cristina Cattafesta, che spesso neanche si conoscono nella realtà, che sono sposate, single,vedove, lavorano, in pensione, precarie, affannate e a volte anche serene, giovani o meno. Costa fatica, molta, comunicare. A volte le lingue differenti richiedono tempi di traduzione, e sopratutto interpretazione di ciò che porta una di noi a tavolino, gettandosi nella mischia della scrittura in Rete: “già perchè anche le parole hanno un sapore”.
A volte non si ha neanche il tempo di deglutire, che siamo fatte fuori e uccidono ciò che abbiamo di più caro, compresa la Libertà.
Prendetevene un po' di tempo, donne e uomini, per leggere quanto segue, senza fretta.Se vi arriva il ponte…
Doriana Goracci
Ho letto l'articolo e sono rimasta senza parole. Non risponderò punto per punto a questa sorta di analisi della situazione iraniana per il semplice motivo che non ne è ho voglia: da troppo tempo sono stanca di questi sostenitori del “relativismo culturale” che comodamente seduti nella loro poltrona si leggono
articoli e commenti lontano dai fatti, non coinvolti mentre ci sono persone reali che fanno una scelta e scendono in piazza a lottare per
diritti *fondamentali *di cui, i tipi di cui sopra, hanno dimenticato il valore se non addirittura il sapore (e già perchè le parole hanno anche
un loro sapore). Risponderò invece mettendo me stessa, la mia storia e parte della mia vita a confronto a cotante tesi.
Mi chiamo Patrizia Fiocchetti. Mio marito era iraniano, un rifugiato sotto l'egida dell'UNHCR, membro della resistenza armata al regime di
Khomeini dei Mojaheddin del Popolo Iraniano. Mio marito è stato messo sulla lista dei condannati a morte di Rasht (capoluogo della regione nord-occidentale dell'Iran, Ghilan) ed è fuggito prima di essere catturato agli inizi degli anni 80. Per anni ha fatto parte della parte
politica dell'organizzazione qui in Italia, finchè nel 1990 non è partito per l'Iraq dove ci sono le basi militari dei Mujaheddin. E in
Iraq è morto a fine marzo del 2003, ucciso durante uno scontro a fuoco con un drappello dei pasdaran entrati nel suolo iracheno approfittando
dei bombardamenti anglo-americani sull'Iraq. In tutto questo periodo, mi sono occupata della situazione iraniana da
molto vicino e soprattutto non dall'esterno ma partecipando a ciò che erano gli sviluppi ed entrando nel merito in prima persona di quella che
era la realtà così di difficile lettura, non solo storico-politica, ma soprattutto sociale e culturale dell'Iran. E' stato un insegnamento e
una scuola per me: vedere l'altro ed imparare a rispettare le differenze reciproche. Ma soprattutto, e dico soprattutto, a trovare i punti di
comunanza e condivisione che ci avvicinavano come esseri umani. E il rispetto dei sacri diritti dell'individuo alla libertà, dei diritti
umani, civili, di sesso, della libera scelta, erano le richieste principali dei molti esuli iraniani che avevano deciso di battersi per
la liberazione del proprio paese. (Quali erano quelli che muovevano i combattenti della resistenza al nazi-fascismo?).
Ora, in Iran, sta succedendo qualcosa che non è paragonabile nè a quanto successo in altri paesi (vedi piazza Tienamenn) nè alla rivoluzione del
1979 che tanti cambiamenti ha portato a questo paese. Tante analisi, parole, ma la domanda vera e reale è cosa succederà
adesso? Fino a che punto si spingeranno? Chi è in piazza sono i giovani, coloro che hanno meno di 30 anni, la
maggioranza della popolazione iraniana. Ma sono innanzitutto studenti, intellettuali, docenti universitari. Sono loro ad infiammare le piazze al grido di “libertà”, “morte al regime”, “democrazia”. E sono loro che hanno colpito nel vivo – mai successo fino ad ora – la legittimità della
guida spirituale, quella che tiene in piedi tutto l'attuale sistema, il fondamento della “Qanun-e-asli”, la Costituzione. E i ranghi della
nomenclatura si sono serrati, hanno espresso – finora ignorato dai paesi occidentali che tuttora si muovono in maniera morbida – la loro ferocia
al mondo, quella che i più pensavano finita, ma che era semplicemente taciuta nonostante le istanze di condanna, le prove più volte sottoposte
all'opinizione pubblica mondiale da parte di chi contro di loro sono 30 anni che si batte incessantemente. Non esiste più una facciata da
difendere nè da mostrare per avere il beneplacito di democrazie occidentali che hanno continuato nel corso di tutto questo periodo a
fare affari con questo regime. L'unica emergenza a cui bisogna rispondere ora, è salvare il fondamento del Velayat-e-faghih, senza il
quale questo sistema e tutte le sue varie espressioni, Rafsanjani, Khatami, Ahmadinejad, Musavi (sì lui, uomo del regime da sempre) e tutti
gli altri non rimarrebbe in piedi neanche una settimana. E la storia ce lo ha dimostrato più volte. Questo è l'ordine, e questo va eseguito, non
importa cosa il mondo pensi. In piazza non si sono visti ad oggi, mentre scrivo, non so poi, i potenti bazari, gli operai e i religiosi stessi.
Non ci sono in Iran formazioni politiche, sindacati che diano a questo movimento spontaneo e travolgente una forma, una via entro cui muoversi.
Quindi il rischio che tutto ciò finisca in un bagno di sangue è veramente alto.
Tre le opzioni:
1 – che il movimento venga represso, con tanti altri morti, o shahid (martiri, spinta così viva nel mondo musulmano sciita. Anche Musavi ha
detto di essere pronto al martirio. Ma dov'è Musavi?). Comunque, avrà ottenuto il merito di creare una breccia nel sistema, di aprire un
percorso da cui non si potrà tornare indietro. Ma quanto tempo ancora dovrà passare? Perchè la reazione della macchina repressiva del regime
sarà sempre più dura e terribile;
2 – che il movimento venga in qualche modo riquadrato da personaggi della establishment (mi sembra la meno plausibile), e riportato, quindi,
nei termini accettabili dal sistema della repubblica islamica, facendolo in qualche modo rientrare nei ranghi e cioè in una ribellione contro il
sistema stesso;
3 – che questo venga invece, preso per mano da una forza di opposizione reale organizzata e soprattutto che abbia la capacità di prenderne le
istanze e portarle fino alle estreme conseguenze; il crollo della repubblica islamica, la fine della superiorità della guida islamica e
quindi un rifarsi alle istituzioni, queste sì, democratiche che dovranno essere create.
Al momento, la risposta di ciò che accade in Iran è di difficile lettura e previsione. E bisogna seguire e leggere tra le sfumature di tutto ciò
che accade e ci arriva come notizia.
Un'ultima cosa:
Mia figlia, la mia ragazza metà iraniana, ieri mi ha chiamato dalla Spagna, dove sta facendo l'erasmus, preoccupata dopo aver parlato con la
cugina, figlia del fratello del padre, con cui si era sentita attraverso facebook.
Questo quanto lei ha detto:
I morti sono più di 200. Questi sono molto forti. Questo regime fa schifo (già proprio così, apertamente). Loro sono venuti da noi, per via
del nostro cognome… Sì, perchè queste sono le modalità in cui si è sempre mosso questo regime. Appena scattano i giri di vite, ecco i morti, gli arrestati e i
perseguitati per un cognome, per le scelte di un altro.
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Molte sono le analisi fatte questi giorni in merito al risultato elettorale in Iran, alla più o meno differenza tra i due contendenti, Ahmadinejad e Musavi, all'impatto che l'uno o l'altro potevano avere in merito alla politica internazionale iniziando dalla questione del nucleare.
Molto si è detto sulle manifestazioni, volute, spontanee, cancellate, represse nel sangue e che soprattutto non accennano a finire. Al di là della volontà dei vari leader religiosi o laici che siano, riformisti o conservatori come vengono ingenuamente definiti da un'analisi tutta occidentale ma che non rispecchia la realtà iraniana, i giovani hanno continuato a scendere in piazza, e nel corso dei giorni, da che la ribellione è esplosa, gli slogan sono andati mutando. Qualcuno l'ha notato? “Dov'è il mio voto?” è stata la partenza, ma ora si grida libertà, democrazia e lo stesso Musavi si è trovato a gestire qualcosa più grande di lui, che lo prevaricava. Musavi è uomo della nomenclatura, ricomparso sulla scena politica da pochissimo che ha condotto una campagna elettorale con il sostegno non tanto di Khatami, ma quanto del potente Rafsanjani, uomo del regime, colui che meglio di qualsiasi altro ha portato avanti la linea ideologico-politica dell'Ayatollah Khomeini. E Rafsanjani non ha esitato un attimo a tirarsi indietro dall'appoggio subito dopo la dichiarazione di sconfitta alle elezioni, dato al suo candidato, ma soprattutto alla piazza, quando ha colto prima degli altri cosa la piazza stava realmente contestando: il Velajat-e-Faghih, l'infallibilità della guida spirituale, il perno intorno a cui ruota la sopravvivenza stessa della Repubblica Islamica dell'Iran.
La piazza, i giovani, poco politicizzati – non ci sono partiti né movimenti politici veri e propri in Iran – due terzi della popolazione iraniana al di sotto dei 30 anni, nati dopo la rivoluzione e di cui non conoscono le motivazioni, ma spinti da un'irrefrenabile voglia di cambiamento, di democrazia di libertà di scelta, continuando le manifestazioni, le proteste e scontrandosi con i basiji e i pasdaran, hanno disobbedito all'ayatollah Khamenei che aveva riconosciuto nel corso dell'ultima preghiera del venerdì che Ahmadinejad era il vincitore. Con questo gesto, hanno aperto una crepa in un apparato già in crisi da lotte intestine per il potere in atto da diversi anni, ma che mai, neanche nel periodo Khatami, erano arrivate a mettere in discussione la prerogativa dell'Uno, di colui che è paragonato all'Imam Alì, perché ciò avrebbe significato la fine stessa del sistema di cui loro erano gli uomini rappresentativi e che quel sistema avevano contribuito a costruire.
La scommessa adesso è chi prenderà in mano questa ribellione, chi in qualche modo riuscirà a portarla al suo ideale obiettivo quello della fine di una Costituzione che toglie al livello esecutivo la gestione reale dello stato, unica possibilità per un vero, radicale cambiamento in un paese martoriato da 30 anni di una delle più feroci dittature conosciute nella storia e su cui troppo le diplomazie occidentali e i loro organi di stampa hanno taciuto per gli enormi interessi economici in cui erano coinvolte.
Un suggerimento: perché Khamenei ha tuonato contro la Gran Bretagna? Contro gli Stati Uniti sarebbe sembrato normale, ma questo ha sorpreso tutti. Qualche mese fa la Corte Suprema Britannica ha imposto al governo di cancellare il nome dei Mujaheddin del Popolo Iraniano – il movimento di resistenza armata al regime – dalla lista delle organizzazioni terroristiche.
Una domanda: dov'è Massud Rajavi, leader della suddetta organizzazione? Non è più in Iraq, dove ormai i combattenti dei Mujaheddin del Popolo sono stati disarmati dall'esercito americano; e non è a Parigi, sede politica della resistenza dove si trova la moglie nonché Presidente del Consiglio nazionale della resistenza iraniana Maryam Rajavi.
Patrizia Fiocchetti
Le immagini sono state tratte da questi link: